La retorica è l'arte
di parlar bene (in greco antico ῥητορικὴ τέχνη,
traslitterato in rhetorikè téchne,
«arte del dire»). Essa è la disciplina che studia il metodo di composizione dei
discorsi, ovvero come organizzare il linguaggio naturale (non
simbolico) secondo un criterio per il quale a una proposizione segua una
conclusione. Sotto questo aspetto essa è un metalinguaggio, in quanto cioè
un «discorso sul discorso».
Lo scopo della retorica è
la persuasione, intesa come approvazione della tesi dell'oratore da parte
di uno specifico uditorio. Da un lato, la persuasione consiste in un
fenomeno emotivo di assenso psicologico; per altro verso ha una
base epistemologica: lo studio dei fondamenti della persuasione è studio
degli elementi che, connettendo diverse proposizioni tra loro, portano a una
conclusione condivisa, quindi dei modi di disvelamento
della verità nello specifico campo del discorso.
Aspetti generali
Nel corso della storia
occidentale la retorica è stata qualificata come “arte”: in greco la
parola τέχνη (téchnē), che
comunemente viene tradotta con arte (ars in latino), indica più propriamente l'abilità manuale
tecnica e artigianale, e da questo termine deriva la parola
"tecnica". In particolare la retorica è l'“arte del
discorso”: essa infatti si occupa dei discorsi in prosa scritti
con un linguaggio “ornato” (quindi in certa misura “artificiosi”) allo
scopo di persuadere qualcuno, cioè convincere o far mutare d'opinione chi
ascolti. Emergono da qui due aspetti: da un lato la retorica studia come
organizzare e strutturare un'orazione (parte che potremmo definire
“sintagmatica”); dall'altro, essa si occupa anche del cosiddetto ornatus, cioè di tutti quei procedimenti
stilistici (figure, tropi, colori in generale) che servono a
ornare il discorso così da renderlo più gradevole e quindi più efficace (parte
“paradigmatica”).
Lo scopo della retorica è
quello di fornire a retori e oratori (e non alla massa degli ascoltatori) le
nozioni teoriche necessarie per comporre un discorso persuasivo. Nel corso dei
secoli i teorici si sono impegnati a individuare i vari elementi e organizzarli
in una tassonomia generale, senza però mai raggiungere una
classificazione condivisa: il risultato è una lunga serie di trattati che,
dall'antichità ai giorni nostri, passando per il Medioevo e
il Barocco, hanno offerto agli oratori un insieme di regole da tener
presente nella stesura di un discorso. Questo ingente numero di trattati,
tuttavia, ha contribuito non poco alla stessa decadenza della retorica, la
quale ancora oggi è vista con una certa diffidenza. Retorica, per il senso
comune, è sinonimo di arte del discorso artificioso, costruito seguendo alla
lettera un insieme di rigide regole stilistiche raccolte in manuali. In realtà,
va detto che la retorica non si riduce affatto a una materia d'insegnamento, da
trasmettere nelle scuole ed esercitare in maniera pedissequa; al contrario,
come scrive Roland Barthes, la retorica è a sua volta anche:
una scienza, in quanto
studia in maniera rigorosa i fenomeni e gli effetti del linguaggio;
una morale, poiché la
capacità di sfruttare ambiguità del linguaggio la rende un'arma potente, che
richiede un codice morale per essere esercitata senza arrecare danni;
una pratica sociale,
poiché nell'Antichità differenziava i potenti (chi ha accesso all'arte della
persuasione) dai sudditi (coloro che soccombono al potere ammaliante della
parola);
una pratica ludica, un
giocare con le parole e il linguaggio (parodie, scherzi, doppi sensi).
Cenni
storici
Le origini
Per la nascita della retorica è
possibile fornire
indicazioni geografiche e cronologiche precise: allorché
nel 465 a.C. terminò la tirannia di Trasibulo, ultimo dei
fratelli Gelone e Gerone I, che si erano resi protagonisti di
massicci espropri di terreni, molti cittadini di Siracusa intentarono
processi per tornare in possesso dei beni confiscati, facendo valere i propri
diritti in tribunale con l'arma della parola. In questo contesto il primo
a dare lezioni di eloquenza pare fu il filosofo Empedocle di Agrigento,
subito imitato dai suoi allievi siracusani Corace e Tisia,
primi a scrivere manuali di retorica (il primo fu scritto da Corace
attorno al 460 a.C.) e a chiedere un compenso per i propri insegnamenti.
Corace e il suo discepolo Tisia
vengono sovente indicati come i «padri» della retorica, sebbene la
testimonianza di Cicerone ci informi che essa doveva essere conosciuta
in Sicilia fin da tempi remoti: il loro merito sta dunque nell'aver
teorizzato «con metodo e precettistica» quella che era un'antica pratica.
Fondamento della loro arte (a quanto risulta dalla testimonianza di Platone) è
il concetto di «verisimile» (eikós),
ovvero tutto ciò che non può essere definito «vero» o «falso» in termini assoluti,
che essi studiarono con un metodo rigoroso, scientifico.
Gli insegnamenti dei due retori
si affermarono rapidamente in Sicilia, ma il loro non fu certo l'unico
orientamento diffuso: in contrapposizione alla loro retorica scientifica si
affermò nella scuola pitagorica una retorica che potremmo definire
irrazionalista, basata sulla seduzione che la parola è in grado di esercitare
sull'anima di chi ascolta (psicagogia).
I pitagorici distinguevano gli argomenti e i discorsi in base al tipo di
pubblico (polytropía), e facevano
largo uso di antitesi; inoltre, sempre a essi si deve la prima teoria
del kairòs («opportuno»), concetto inteso come armonia numerica e
strettamente collegato alla polytropía, con il quale si indica il grado di
opportunità di un discorso in relazione all'uditorio che si ha di fronte.
Nel corso del V secolo
a.C., dalla Magna Grecia la retorica giunse rapidamente in Attica,
e soprattutto ad Atene, grazie all'attività di insegnamento dei sofisti. Nell'età
di Pericle, che per molti versi rappresentò l'età d'oro della polis ateniese,
intellettuali come Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia,e Trasimaco, trovarono
terreno fertile: molti giovani di buona famiglia accorrevano da ogni parte per
apprendere, dietro compenso, le lezioni impartite da questi "maestri di
virtù", che giravano di città in città insegnando come tenere discorsi
nelle assemblee pubbliche. E proprio l'insegnamento della retorica li indusse a
sviluppare ulteriormente questa tecnica. Protagora ad esempio, padre della
Sofistica, concentrava la propria attenzione su problemi di carattere linguistico e semantico (e
lo stesso farà Prodico), alla ricerca di un logos horthótatos, un linguaggio rigoroso e formalmente preciso per
definire le cose. Egli era poi un sostenitore del relativismo etico e gnoseologico,
espresso dalla celebre massima secondo cui l'uomo è misura di tutte le
cose: da queste considerazioni scaturiva il suo interesse per i discorsi
contrastanti (dissòi lògoi) e
l'antilogica, la tecnica che ha lo scopo di trovare per uno stesso oggetto due
argomenti contrapposti, uno cioè che lo afferma e uno che lo nega (portata
all'estremo, questa tecnica prende il nome di “eristica”).
Inoltre, con i sofisti la
retorica comincia a intrattenere stretti rapporti con la poesia, cessa di
essere usata solo in tribunali e assemblee pubbliche e assume valore epidittico, diventando un'arte a sé
stante: tutto questo soprattutto grazie a Gorgia di Leontini e
Trasimaco di Calcedonia. Per essi l'arte di persuadere era da
intendersi soprattutto come una forma di suggestione, totalmente avulsa da ogni
esigenza di giungere a una conoscenza o un convincimento basati su argomenti
razionali e sulla produzione di prove e argomenti a favore. Il retore doveva
possedere una persuasività tale da convincere chiunque di qualsiasi cosa, a
prescindere dall'argomento trattato: il logos, la parola, afferma Gorgia nell'Encomio di Elena, è onnipotente sia sugli uomini sia sugli dei, e
la sua potenza consiste appunto nell'indurre a ritenere giusto e vero ciò che
si afferma. La particolare predilezione della Sofistica per la capacità di
persuasione dell'orazione e tutti gli strumenti retorici a essa collegata (la
cosiddetta doxa o
"verosimiglianza") attirò le ire della maggior parte delle poleis e degli oratori o logografi
di professione, i quali sostenevano che quest'uso del logos era tanto
spregevole quanto subdolo e scorretto.
In particolare, Gorgia, allievo
di Empedocle, fu il primo a introdurre nella prosa i tropi, le figure e tutti gli ornamenti tipici della poesia, mentre
Trasimaco divenne celebre per l'invenzione dello stile «medio», opposto a
quello aulico del sofista di Leontini.
L'oratoria di età classica
Durante il V secolo a.C.
l'oratoria si diffuse largamente ad Atene, favorita dal diritto di partecipare
alla vita pubblica che la polis democratica
riconosceva a tutti i cittadini. Sia nelle assemblee sia nei processi la
deliberazione era affidata al voto della comunità, di fronte alla quale il
cittadino si presentava per tenere un discorso: per far valere i propri
interessi e i propri diritti era dunque necessario padroneggiare al meglio
l'arte della parola. A questo periodo risalgono le prime schematizzazioni che
precisano le parti di cui devono essere composti i diversi tipi di discorso,
soprattutto per quanto riguardava il genere giudiziario
(discorsi di accusa o difesa), mentre più flessibile era il caso del deliberativo (tipico delle orazioni
politiche) e dell'epidittico
(orazioni pubbliche tenute durante festività o funerali). Tuttavia all'oratore,
per avere successo, erano necessarie preparazione e doti personali, e poiché
non tutti disponevano di denaro per studiare o di particolare attitudine a
parlare in pubblico, presto si diffuse la pratica di rivolgersi a un
professionista della retorica: il logografo.
Questi scriveva discorsi che poi il committente avrebbe imparato a memoria e
ripetuto in tribunale.
Un canone di epoca ellenistica
elenca i nomi di 10 oratori ateniesi, distintisi per la loro eccellenza:
Antifonte, Andocide, Lisia, Isocrate, Demostene, Iseo, Licurgo,
Eschine, Iperide e Dinarco. Di questi, i più antichi furono Antifonte
di Ramnunte e Andocide, entrambi appartenenti all'aristocrazia e
coinvolti nella vita politica ateniese ai tempi della Guerra del
Peloponneso: Antifonte (che forse fu anche sofista) fece parte della Boulé dei Quattrocento e fu per
questo motivo giustiziato, mentre Andocide fu coinvolto nello scandalo delle erme e costretto
all'esilio.
Nato in una famiglia di meteci, Lisia fu un logografo e scrisse in dialetto attico puro,
senza figure retoriche. Sostenne l'importanza dell'etopea, cioè della capacità di immedesimarsi nel carattere del
personaggio che difendeva e divenne un modello per gli atticisti. Difatti la maggior parte
dei logografi suoi contemporanei non badava al rapporto tra personaggio
pronunciante e discorso pronunciato, facendo sì che molte memorabili orazioni
passate alla storia per la raffinatezza stilistica e lessicale fossero in
realtà pronunciate da soggetti non istruiti, o comunque non abbastanza dotti da
poter comporre un'orazione come quella appena pronunciata. Inoltre, alla
capacità mimetica Lisia
univa un grande talento narrativo, con il quale descriveva in modo sobrio scene
estremamente drammatiche, come uccisioni e vendette. Il suo stile si presenta
quindi elegante, essenziale e preciso: ogni causa giudiziaria è unica, e in
quanto tale richiede che la sentenza sia valutata attentamente e commisurata
alla situazione.
Anche Demostene, vissuto
nel IV secolo a.C. e rivale di Isocrate ed Eschine, all'inizio della
sua carriera fu un logografo e si dedicò alla retorica giudiziaria. La sua fama
è però dovuta al suo impegno nella vita pubblica e alla sua oratoria politica:
in particolare si oppose con forza alla mire espansionistiche di Filippo
II di Macedonia, contro il quale compose le famose Filippiche, in cui il sovrano veniva presentato come un barbaro
nemico dei valori della democrazia e gli ateniesi erano invitati a ridestarsi
dall'inazione per difendere le libertà comuni, andando in soccorso delle città
sotto assedio macedone. Lo stile di Demostene si caratterizza quindi per
vitalità e vigore, ricco di metafore, iperboli, apostrofi e drammatici effetti
a sorpresa: il pathos della sua oratoria mirava infatti a infiammare
gli animi degli ascoltatori e persuaderli della necessità di impegnarsi
attivamente nell'azione politica.
Ben diversa fu l'opera di Eschine,
assertore (come altri intellettuali) dell'inevitabilità del dominio macedone
sulla Grecia. Egli si rivelò un grande esperto di questioni legali, e la sua
oratoria è caratterizzata da lucidità e coerenza logica, ma è priva
del pathos che rese celebre il suo avversario Demostene. Quest'ultimo
trovò invece un alleato in Iperide, che si batté contro l'egemonia
macedone fino al sacrificio estremo (fu giustiziato da Antipatro nel 322
a.C.): poco è giunto ai giorni nostri delle sue orazioni, in cui, con eleganza
e ironia, ritraeva scene di vita quotidiana, nel solco tracciato dallo stile di
Lisia.
Platone
Nel IV secolo a.C., Platone oppose
alla concezione sofistica una propria visione della retorica: negando che essa
sia un'arte (techne), il filosofo le
preferì la definizione di «abilità» (empeiria), attribuendole
però allo stesso tempo una funzione eminentemente pedagogica, come
strumento in grado di guidare l'anima attraverso argomentazioni e ragionamenti
(la cosiddetta psicagogia). In
altre parole, dalla retorica dei sofisti, a cui venivano ascritte unicamente
caratteristiche negative, Platone distingueva una retorica per così dire
«buona», la quale, esercitata dai filosofi e quindi orientata allo studio della
filosofia, potesse essere di utilità per instradare alla conoscenza del bene.
La pratica della retorica veniva così ricondotta nell'alveo della stessa filosofia,
con la quale finiva per identificarsi, svuotata della propria autonomia.
Cambiavano di conseguenza gli interlocutori - non più il popolo o i giudici - e
i luoghi - non più assemblee o giudizi.
D'altra parte, è fuor di dubbio
che a instradare il giovane Platone allo studio del rapporto tra filosofia e
retorica fu la frequentazione del maestro Socrate, il quale,
nell'esercizio della sua maieutica,
faceva uso di una particolare e originalissima forma di retorica, fatta di
domande e risposte brevi (la cosiddetta brachilogia, contrapposta alla macrologia dei sofisti).L'Accademia platonica riprenderà
le teorie di Platone riguardanti la ἀλήθεια (alétheia) o "verità", in netto contrasto con la visione
sofistica, secondo la quale la verità deve essere posta in secondo piano,
sottostante all'eloquenza dell'oratore e alla sua capacità di convincere
l'uditorio riguardo l'attendibilità e la veridicità del suo discorso.
Isocrate
Contemporaneo di Platone e
allievo di Gorgia, Isocrate formulò un'interessante proposta
educativa (paideia) fondata
sull'apprendimento della retorica e messa in pratica nella sua scuola,
concorrente dell'Accademia platonica. L'intento del retore, che amava definirsi
filosofo (in un'accezione differente da quella di Platone), era quello di
formare cittadini virtuosi attraverso lo studio della retorica: erede della
lezione della Sofistica, egli riteneva la virtù nient'altro che la ragionevole
opinione condivisa dai membri della polis,
che doveva essere sempre tenuta presente dal retore nei propri discorsi così da
guadagnare una buona reputazione. La virtù per Isocrate, infatti, non
consiste in una ricerca infinita che miri al bene e alle verità somme, né può
essere insegnata come fosse una techne,
e chi, come certi filosofi, dice di poterlo fare, mente; all'opposto di
questi insegnamenti, che egli definisce «vuote chiacchiere», vi è l'arte della
parola, che è l'arte umana per eccellenza, quella che distingue gli uomini dagli animali e
fa sì che possa esserci la civiltà.. La sua è dunque una posizione
pressoché intermedia tra i due estremi della retorica greca del V secolo a.C.,
ovvero la Sofistica
e l'Accademia platonica (che sostenevano rispettivamente la δόξα e la ἀλήθεια).
Inoltre, poiché la retorica
insegna a scegliere l'argomento di volta in volta più opportuno (kairós) per convincere il pubblico che
si ha davanti, essa fornisce a chi la pratica (purché abbia una certa predisposizione)
gli strumenti necessari per poter discernere, in qualsiasi ambito professionale
o nella vita quotidiana, quelle tra le diverse opzioni che risulteranno più
utili al raggiungimento del successo personale.
Isocrate tenne soprattutto
orazioni dimostrative, con uno stile armonioso; si trattò dunque di un
esponente della cosiddetta oratoria epidittica
(dal termine greco epideiktikós,
derivato di epideíknymi ossia
«dimostrare»). Era questo il genere di eloquenza tenuto dagli antichi oratori
greci nelle cerimonie pubbliche, spesso in occasione dei funerali in
cui si rendeva necessario tessere le lodi del defunto. Una caratteristica
fondamentale di Isocrate era costituita dalla sua cura formale per l'orazione:
talvolta questo lavoro di lima diveniva
così ampio da richiedere una quantità di tempo smisurata. Così facendo non
capitava di rado che Isocrate - o chiunque in sua vece - pronunciasse orazioni
riguardanti tematiche ormai datate.
Aristotele
Diversamente da Platone che le
rifiutava il titolo di techne, Aristotele
di Stagira definì la retorica «la facoltà di scoprire il possibile mezzo
di persuasione riguardo a ciascun soggetto». Egli distolse l'attenzione
dal considerare la retorica una mera arte della persuasione, incentrando invece
l'analisi sullo studio dei mezzi di persuasione, strumenti indipendenti
dall'oggetto dell'argomentare. La retorica riacquista così una funzione
propria, autonoma dalla filosofia e in stretta relazione con la dialettica, della quale è da considerare
la controparte. Il merito di Aristotele è quello di aver raccolto in un sistema
organico tutte le scoperte fatte fino ad allora dai retori, sottolineando come
la retorica debba essere una tecnica rigorosa strettamente legata alla logica: mentre la dialettica produce le proprie
dimostrazioni per mezzo dei sillogismi,
la retorica ricorre all'entimema, il
sillogismo retorico basato su premesse probabili (éndoxa). Tuttavia - e qui sta la differenza con la logica - come le premesse, anche le
conclusioni a cui giunge l'entimema
sono solo probabili, e quindi passibili di confutazione.
Più in generale, lo studio
sistematico della retorica in quanto techne viene
portato avanti dallo Stagirita partendo dall'analisi di tutti gli
elementi entechnoi, quelli cioè
interni alla retorica, in primis le argomentazioni dimostrative (pisteis): tra esse la principale è l'entimema (deduzione retorica), ma va
ricordato anche l'esempio (induzione retorica). Inoltre,
Aristotele dedica particolare attenzione a classificare i generi del discorso (giudiziario, deliberativo, epidittico),
organizzandoli in base al tipo di uditorio (il
giudice, l'assemblea politica, un generico pubblico) e al tempo (presente per chi si difende in tribunale,
futuro per chi delibera, passato per chi elogia). Successivamente, il
filosofo si dedica anche all'ethos e
alle passioni (pathos), lasciate
inizialmente in secondo piano, evidenziando come anch'esse, al pari degli
elementi «dialettici», risultino indispensabili se si vuole persuadere
qualcuno.
Col passare del tempo, la
retorica finirà per identificarsi con l'arte dello scrivere corretto e
dell'eloquio fluente, ma l'influenza dello Stagirita e del suo sistema
continuerà a perdurare nei secoli a venire.
L'ellenismo
Durante l'ellenismo la
retorica continuò a essere studiata e a destare l'interesse dei filosofi, in
particolare degli Stoici. Zenone, padre di questa corrente
filosofica, definì la retorica e la dialettica come le due parti di cui si
compone la logica, raffigurata attraverso la celebre immagine della mano: il pugno chiuso indica il carattere
conciso della dialettica, mentre la mano aperta con le dita distese rappresenta
la retorica e i suoi modi diffusi. Alla retorica veniva pertanto
riconosciuto il medesimo valore attribuito alla prosa filosofica, e ne veniva
rilevata l'utilità a scopo didattico: essa è l'arte del parlar bene, e parlar
bene, per gli stoici, significa dire la verità. In questo modo, la retorica
sembra contendere il campo alla filosofia, riaprendo l'antico dissidio che
aveva contrapposto Platone ai sofisti.
Su questo solco si collocano le
riflessioni di altri filosofi stoici, come Crisippo, Cleante e Diogene
di Babilonia, e a queste dottrine si rifà anche Ermagora di Temno, retore
tra i più celebri e importanti del II secolo a.C. La sua teoria viene
ricordata soprattutto per due aspetti: la divisione tra ipotesi e tesi, e
l'introduzione del concetto di stasis.
Anzitutto, secondo Ermagora, la retorica non si deve occupare solo di
controversie personali riguardanti singoli individui, le hypotheseis, ma anche di questioni di
carattere generale e universale, cioè le theseis; in questo modo, la retorica invade ancora una volta (non
senza aspre polemiche) il campo della filosofia, e oggetto del suo interesse
diventano il bene e il giusto. Inoltre, Ermagora si soffermò sulla trattazione
della stasis (in
latino status), la
determinazione della questione principale di cui si occupa l'orazione, a
partire dalla quale egli proponeva una propria classificazione dei discorsi,
che interessava prevalentemente quelli giudiziari e che, a differenza di
Aristotele, distingueva due generi: il genere
razionale (γένος λογιστικόν) e il genere
legale (γένος νομικόν). Il primo dipende dal senso comune, e può essere suddiviso nei sottogeneri
“congetturale”, “definitivo”, “qualitativo” e “traslativo”; il genere legale,
invece, riguarda la legislazione e può essere ulteriormente suddiviso
nei sottogeneri riguardanti la lettera,
le leggi contrarie, l'ambiguità e il sillogismo.
Sempre nel II secolo a.C. si
assiste poi allo sviluppo di due diversi stili di retorica, corrispondenti a
due diversi orientamenti e due diverse scuole:
La corrente asiana
Dalla corrente asiana derivò la
famosa corrente dell'asianesimo (vale
a dire «che è nata in Asia Minore») nel III secolo a.C. Era uno
stile retorico ridondante, fortemente ritmato, barocco e ampolloso, in cui
veniva fatto un uso frequente di frasi spezzate, metafore e parole inventate,
che però conobbe una grandissima diffusione. Caposcuola di questa corrente
fu Egesia di Magnesia. L'asianesimo si affermò anche a Roma nel I
secolo a.C. insieme con una corrente rivale, quella attica.
La corrente attica
Dalla corrente asiana deriva,
come controproposta purista e conservatrice, un altro famoso stile retorico, l'atticismo (cioè «che è nativo dell'Attica, Grecia»).
Era uno stile retorico cronistico, caratterizzato una scrittura scarna e, per
usare un termine moderno, telegrafica. Modello di questo stile retorico fu il
famoso oratore Lisia, oltre a Isocrate e Senofonte. L'atticismo si
affermò a Roma nel I secolo a.C. come rivale dell'asianesimo.
Questi due stili erano
rigidamente opposti, tanto da generare forti scontri nei secoli successivi. Il
principale esponente dell'asianesimo fu Teodoro di Gadara, mentre tra gli
atticisti si ricordano Apollodoro di Pergamo, Dionigi di Alicarnasso e Cecilio
di Calacte.
La retorica nella Roma
repubblicana
Nel mondo greco la retorica
mantenne sempre una certa importanza nell'educazione dei giovani (paideia), venendo compresa tra le
materie di insegnamento. L'arte del parlare (oratoria) si sviluppò grazie alla parresia, la libertà di parola ed espressione: durante il
governo di Pericle ad Atene si arrivò a dare a tutti la possibilità
di esprimersi in pubblico. Anche in seguito la retorica e l'oratoria
continuarono a vivere e svilupparsi, sebbene i retori furono sempre meno
affermati. I Romani, con la conquista dell'Oriente e della Grecia a seguito
della battaglia di Pidna del 168 a.C., entrarono in contatto con
la cultura ellenica, restandone fortemente influenzati.
L'oratoria rimase a Roma uno
strumento riservato alla nobilitas per
avanzare nel cursus honorum.
Essa veniva applicata inizialmente solo da schiavi, liberti e italici, e veniva
considerata un'attività legata agli otia,
cioè al tempo libero. Iniziatore della prosa oratoria latina è
considerato Appio Claudio Cieco, il quale nel 280 a.C. tenne un
discorso per persuadere i senatori a non accettare le condizioni di pace poste
dal re dell'Epiro Pirro subito dopo la vittoria di Eraclea. Alla
fine dell II secolo a.C. le orazioni mostrano una prima assimilazione
delle teorie greche. Un alto livello viene raggiunto da Marco Antonio e Lucio
Licinio Crasso, che individua l'importanza dell'arte retorica nella vasta e
raffinata cultura e nello stile utilizzato, cioè l'elocutio, la capacità di scegliere i termini per adattarli
elegantemente nel testo. Lo stesso Crasso, d'altra parte, in qualità di censore
fece chiudere nel 92 a.C. la scuola dei rhetores Latini di Lucio Plozio Gallo. La retorica
romana nell'età della grande espansione territoriale è caratterizzata
soprattutto dalla preminenza della figura di Marco Porcio Catone, detto
anche Catone il Vecchio o "il Censore". I suoi discorsi sono
caratterizzati da uno stile semplice e conciso, da frasi taglienti, debitrici
dell'influsso greco, anche se tanto attaccato dalla sua politica conservatrice.
È un'opera oratoria quasi esclusivamente politica le cui tematiche sono il
ruolo degli equites, la
questione del lusso, la politica interna ed estera. I conflitti politici del II
secolo a.C. incentivarono l'arte oratoria, e molti oratori di questo periodo
provennero dal Circolo degli
Scipioni, oppositori del progetto politico dei Gracchi, i fratelli
Tiberio e Caio.
A Roma la retorica fu quindi
materia molto studiata e molto praticata, sia nelle sue applicazioni forensi
sia in quelle politiche: ne è un chiaro esempio Cicerone, nativo di Arpino, con
le sue famose Verrine, orazioni
scritte contro il propretore della Sicilia Verre; ma non può certo
tralasciarsi il ruolo essenziale che, dopo di lui, ebbe Quintiliano, che
nella Institutio Oratoria elaborò
una vera e propria silloge della retorica classica così come si era
sviluppata fino alla sua epoca.
Tra il 150 e il 100
a.C. circa si opposero tra loro le due scuole oratorie nate in Grecia,
quella asiana e quella atticista. L'ampollosità caratteristica
dello stile asiano fu incarnata dall'oratore Quinto Ortensio Ortalo. Tra
gli oratori atticisti, uno dei più importanti fu certamente Cesare, anche
se i suoi discorsi sono andati perduti. Accanto alla scuola attica e alla
scuola asiana, vi era anche una terza scuola retorica, detta rodiense, dalla città di Rodi appunto.
Esponente principale della scuola rodiense, sintesi delle vene stilistiche
contenutistiche delle altre due scuole, fu sicuramente Cicerone, i cui maestri
furono Apollonio di Alabanda e il suo seguace Apollonio Molone.
Proprio all'Arpinate viene
falsamente attribuito il più antico trattato latino di retorica giuntoci,
la Rhetorica ad Herennium.
Scritto presumibilmente tra l'88 e l'82 a .C., debitore delle teorie degli
stoici e in particolare di Crisippo ed Ermagora, questo testo punta
l'attenzione sul valore prettamente civile della retorica e sulla definizione
di verosimile, che viene distinto sia dagli argomenti storici sia da quelli
finti (fabulae). L'anonimo autore si
dedica poi a un'attenta analisi delle cinque parti della retorica, tra le quali
per la prima volta viene riconosciuta l'importanza della memoria.
Cicerone
Considerato il più importante
retore latino, Cicerone è ricordato sia per essere stato un grande oratore (a
lui si deve la diffusione dello stile
rodiense, con la sua prosa più temperata rispetto all'Asianesimo, ma priva
dell'asciuttezza dell'Atticismo), sia per le sue opere teoriche, in cui entrò
nel merito dei principali dibattiti in corso. Egli però evitò nei suoi testi
un'esposizione troppo tecnicistica, preferendo piuttosto fornire una visione
non specialistica della retorica e del ruolo dell'oratore, mostrando come essa
si radichi nel campo delle lettere e della filosofia: in questo modo, Cicerone
intendeva ribadire la nobiltà e l'utilità dell'eloquenza, sottolineandone
l'importanza civile e politica.
Nel De oratore, ad esempio, opera in tre libri sotto forma di dialogo
completata attorno al 55 a.C., egli affronta il tema del rapporto tra
filosofia e retorica, affermando, sulla scorta di Platone, che senza la
filosofia la retorica è vuota, ma che d'altro canto la retorica non può essere
screditata dai filosofi, poiché proprio l'eloquenza è il fondamento della
società civile. Filosofia e retorica non sono opposte, ma semmai
complementari, cosicché il buon retore deve essere filosofo: su questo solco si
colloca anche la riflessione del Brutus,
altra opera in forma di dialogo scritta attorno al 46 a.C., nella quale
viene delineata la figura del perfectus
orator, sintesi delle virtù rilevate nei principali retori e oratori del
passato. Sempre negli stessi anni Cicerone compone l'Orator, epistola indirizzata a Bruto in cui riprende quanto detto
in merito all'eloquenza nel De oratore, soffermandosi in particolare
sul numerus (ritmo);
infine, negli ultimi anni della sua attività compose i Topica e le Partitiones oratoriae, opere di
carattere più tecnico che riprendono Aristotele (in articolare i Topici e la teoria dei loci).
Quintiliano e la retorica
latina di età imperiale
Con il passaggio dalla Repubblica all'Impero,
la retorica perse la sua funzione politica e progressivamente diminuì di
importanza, pur rimanendo materia di studio. Molte informazioni sulla pratica e
l'insegnamento della retorica in questo periodo si devono all'opera di Seneca
il Vecchio, padre del più noto filosofo precettore di Nerone.
Con la concessione della cittadinanza romana da parte di Cesare ai maestri
delle arti liberali (49 a .C.),
le scuole di retorica crebbero di numero: qui i futuri retori dovevano
esercitarsi nelle declamationes con
tesi (θέσεις o quaestiones infinitae, cioè temi di carattere morale, politico,
filosofico) e ipotesi (ὑποθέσεις
o quaestiones finitae,
specifiche situazioni giuridiche). Queste esercitazioni a loro volta si
differenziavano in suasorie,
nelle quali si immaginava di dover persuadere un personaggio storico o mitico,
e controversiae, che si
collocavano sul terreno giudiziario e prevedevano l'applicazione di un
determinato principio legale.
Proprio nei primi anni
dell'Impero (I secolo d.C.) vive e opera il già ricordato Marco Fabio
Quintiliano, retore tra i più celebri e precettore dei nipoti dell'imperatore Domiziano.
Quintiliano teorizzò nella sua Institutio
Oratoria il percorso formativo che doveva seguire un giovane per poter
diventare un buon oratore ed essere quindi – secondo la formula di Catone il
Censore - vir bonus dicendi peritus.
Posto anch'egli di fronte alla spinosa questione del rapporto tra filosofia e
retorica, Quintiliano piega verso l'eloquenza, l'unica in grado di formare
cittadini onesti e moralmente saldi. Inoltre, seppur di primaria
importanza, il trattato non si esaurisce nell'analisi degli aspetti pedagogici,
ma sviluppa anche una serie di considerazioni sulla tecnica e la composizione:
la classificazione dei generi del discorso, le cinque fasi della composizione (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio),
le caratteristiche morali e culturali che deve avere un buon oratore (con
esplicito riferimento a molti altri autori, da prendere a modello), il rapporto
che il retore deve intrattenere con i politici.
Oltre a Quintiliano sono noti
altri retori che ebbero una certa rilevanza in età imperiale, come Publio
Rutilio Lupo (autore di un manuale di retorica, Schemata),Asinio Gallio, Larcio Licinio (che denigrò
Cicerone nel suo Ciceromastix), Domizio
Afro. Autori di orazioni furono anche Plinio il Giovane e Apuleio
di Madaura; e non si può dimenticare l'opera di Frontone, maestro
dell'imperatore Marco Aurelio, vissuto nel II secolo. Nelle sue
epistole egli spiega agli allievi l'importanza delle scelte lessicali,
invitando all'uso di termini arcaici, in grado di esprimere appieno un
concetto; non per questo, tuttavia, uno stesso discorso risulta efficace per qualsiasi
uditorio, ma anzi sarà necessario variare il proprio stile in funzione del
destinatario a cui ci si rivolge (per esempio plaude l'allievo imperatore che
non usa termini aulici di fronte al popolo).
L'Anonimo del Sublime
Al I secolo d.C.
appartiene un importantissimo trattato di retorica, noto con il titolo di Περί ὕψους, Sul Sublime. Nulla sappiamo del suo
anonimo autore, indicato dalle fonti come «Dionisio oppure Longino» e talvolta
identificato – a torto – con il sofista del III secolo Cassio Longino
(per questo motivo l'autore è detto anche Pseudo-Longino). Il contenuto
dell'opera si inquadra nel dibattito in corso in quegli anni sui tre stili
retorici, sublime/umile/medio,
soffermandosi in particolare sul primo dei tre, del quale l'Anonimo dice che
«trascina gli ascoltatori non alla persuasione ma all'estasi», poiché, mentre ciò che è convincente o grazioso è
facilmente alla portata di tutti, la grandiosità, di cui il sublime è
espressione, sovrasta ogni ascoltatore con la sua invincibile forza. Cinque
sono le fonti del sublime: la capacità di concepire grandi cose, una passione
violenta e ispirata, una particolare costruzione delle figure, uno stile
nobile, una disposizione solenne ed elevata delle parole. Le prime due sono
innate, mentre le altre tre possono essere apprese con la tecnica e
l'esercizio.
È opinione diffusa che
l'Anonimo svolga le proprie posizioni a partire da un terreno platonico,
poiché platonica è la tesi secondo cui l'essenza della poesia e dell'oratoria
risiede nel pathos: invece di
mirare all'utilità sociale, come volevano stoici e aristotelici, secondo
l'Anonimo la retorica deve ricercare l'eccezionalità, raggiungibile grazie a
passione e fantasia, abilmente disposte da un oratore dotato per natura di un
grande animo. Tuttavia, non per questo le tesi del Sublime si
riducono a una dottrina irrazionalistica, in cui tutto ruota attorno al
sentimento; al contrario, il trattato presenta una minuta precettistica che
riguarda i tropi e le altre regole da usare, con la riserva, però, che esse
devono comunque passare in secondo piano rispetto alla passione, l'unica in
grado di vincere la diffidenza e l'artificiosità che produrrebbe un discorso
troppo vincolato al rispetto delle norme stilistiche.
Età Tardoantica
Negli ultimi secoli dell'impero,
la retorica sarebbe rifiorita soprattutto sotto forma di oratoria sacra, prima
volta all'esegesi delle Sacre Scritture, e poi, con la patristica greca
(San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, San Gregorio di Nissa, San
Giovanni Crisostomo) e latina (Sant'Ambrogio, Sant'Agostino),
alla diffusione della dottrina cattolica.
Con la crisi dell'Impero,
la retorica continuò a essere materia di insegnamento durante tutto il Tardoantico,
e proprio in una scuola di retorica si formò il giovane Agostino d'Ippona. Gli
studi umanistici e retorici a cui fu sottoposto per volere del padre (che
sognava per il figlio una brillante carriera forense) furono per lui di estrema
importanza quando, convertitosi, si avvicinò allo studio dei Testi Sacri.
Dalla sua intensa attività ermeneutica,
perseguita per anni con estremo scrupolo, nacque il De doctrina Christiana, opera in 4 volumi dei quali i primi tre
sono dedicati all'esegesi biblica a partire dalla coppia concettuale res (contenuti) e signa (parole), mentre il quarto è
dedicato alle norme da seguire per una corretta esposizione della Verità
appresa. Proprio in quest'ultimo libro Agostino descrive quella che doveva
essere la «retorica cristiana», posta al servizio della predicazione: in
essa vengono riprese le norme della retorica classica, come la distinzione dei
tre stili (sublime, umile, medio) e
la necessità che il retore sia animato da rettitudine e sia – quindi – un
buon cristiano.
D'altra parte va ricordato che
anche prima di Agostino altri autori cristiani si erano rivolti alla retorica
classica per le loro opere apologetiche, come Tertulliano, Minucio
Felice e Lattanzio (quest'ultimo noto come “il Cicerone cristiano”); tuttavia, è con il De doctrina Christiana che il Cristianesimo acquisisce in
toto la retorica pagana per applicarla allo studio della Bibbia, la quale
con il suo stile semplice è vista come l'archetipo della retorica stessa. In
questo modo, la retorica continuerà a sopravvivere anche nel Medioevo.
Medioevo
Al V secolo risale
il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano
Capella, trattato in cui vengono presentate, sotto forma di personificazioni allegoriche,
le sette arti liberali del Septennium.
Nello specifico, le arti sono suddivise in due gruppi:
Trivium, le
arti che si occupano della parola:
Rhetorica,
Dialectica,
Grammatica,
Quadrivium, le
arti che si occupano della natura:
Musica,
Astronomia,
Arithmetica,
Geometria.
Il Septennium godette
di grande fortuna nel Medioevo, e fu ulteriormente sviluppato nei secoli
successivi da filosofi come Boezio, Cassiodoro, Prisciano, e Isidoro
di Siviglia. La retorica, in particolare, entrò di forza nella dinamica
dell'insegnamento scolastico, sebbene la sua importanza fu presto offuscata
dalle altre arti del Trivium, la
grammatica prima e la dialettica (logica)
poi. I metodi di insegnamento vigenti nelle scuole sono riconducibili a due
tipi di esercizi:
Lectio, che
prevedeva la lettura e la spiegazione di un testo fisso, solitamente preso
dalle Sacre Scritture. Si componeva di due momenti:
Expositio (interpretazione
del testo),
Quaestiones (discussioni
sulle parte del testo che ammettevano un pro e un contro),
Disputatio, sorta
di “tenzone dialettica” sotto la supervisione del maestro in quattro momenti:
Quaestio (problema
posto dal maestro),
Respondeo (proposta
di soluzione),
Sed
contra (obiezione alla soluzione proposta),
Determinatio
magistralis (soluzione del maestro).
L'esercizio della lectio fu in breve accantonato in
favore della disputatio, metodo
dal sapore agonistico sviluppatosi nell'università di Parigi, e
cresciuto di importanza con lo studio della dialettica derivata dalla logica
aristotelica: un celebre esempio di disputatio è rappresentato dallo scontro tra Abelardo e
il maestro Guglielmo di Champeaux, ricordato da Abelardo stesso nella
sua Historia calamitatum mearum.
La retorica dominò la scena
culturale nei secoli compresi tra il V e il VII, per poi essere superata
dalla grammatica (VII-X secolo) e dalla logica (X-XIII secolo). Il suo campo
d'azione fu suddiviso in tre tipi di artes:
le artes poeticae (preposte
alla poesia e alla versificazione), le artes
dictaminis (arte epistolare) e le artes predicandi o sermocinandi (le arti oratorie in
generale, che si occupano di sermoni e discorsi). Nel contempo ebbe il
sopravvento la grammatica, che divenne “grammatica speculativa” e iniziò ad
occuparsi delle exornationes (figure retoriche); anch'essa dovette
però cedere alla forza della dialettica, che finì per inglobarla.
Anche la classificazione delle
arti nel Trivium venne
messa in discussione, e nel XII secolo il filosofo Giovanni di
Salisbury proporrà una biforcazione la cui fortuna continua ancora oggi:
da un lato la dialettica (Filosofia),
che si occupa di oggetti astratti per mezzo di sillogismi, dall'altro la retorica
(Lettere), che invece si occupa di argomenti reali e concreti.
Umanesimo e Rinascimento
Con l'Umanesimo la
retorica fu riscoperta come disciplina autonoma dalla filosofia, tanto da
scavalcare nuovamente di importanza la dialettica. Umanisti come Lorenzo
Valla e Coluccio Salutati esaltarono la retorica in quanto mezzo
per raggiungere la verità: se si nega che la verità si riduce a uno sterile
insieme di dogmi, padroneggiare l'eloquenza risulta basilare per giungere
alla conoscenza. Inoltre, va ricordato che nel 1416 Poggio Bracciolini rinvenne
nel monastero di San Gallo (Svizzera) una copia integrale dell'Institutio oratoria di Quintiliano,
il cui impatto sulla società dell'epoca fu notevole: negli intellettuali
infatti passò l'idea che l'educazione di un uomo doveva trovare compimento
nello studio dell'eloquenza e delle lettere.
In questo periodo il maggior
esponente dell'oratoria civile fu Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II.
Nell'oratoria sacra si distinsero Bernardino da Siena, per la loquela
popolaresca, e Gerolamo Savonarola, per lo straordinario vigore.
Nel corso del Rinascimento,
un'altra scoperta però scosse gli intellettuali, quella della Poetica di Aristotele. Scarsamente
conosciuta nel Medioevo (se non in forma di compendi, per altro poco fedeli),
la Poetica fu pubblicata per
la prima volta, in traduzione latina, a Venezia nel 1498, e
successivamente tradotta in italiano da un gruppo di eruditi nel 1550. Dall'Italia,
le tesi della Poetica si propagarono in tutta Europa, e
particolarmente in Francia: il breve trattato aristotelico venne letto
come «codice della creazione letteraria», cioè come un insieme di norme e leggi
teoriche da rispettare nell'esercizio della bella scrittura.
Proprio in Francia visse e
operò in quegli anni il filosofo antiaristotelico Pierre de la Ramée (noto anche come
Petrus Ramus o Pietro Ramo), il quale teorizzò una nuova suddivisione delle artes logicae in Dialectica e Rhetorica: alla prima competono l'inventio e la dispositio, mentre alla retorica elocutio e pronunciatio (o actio). Ramus riduce così la retorica a
semplice teoria dell'elocuzione, trasformandola in una scienza delle norme
della scrittura il cui principale interesse sono le figure retoriche:
essa entra tra le discipline oggetto d'insegnamento sotto forma di scienza
dell'analisi del testo, volta a studiarne gli ornamenti.
Il Barocco
Nel XVI secolo la
retorica si ridusse a disciplina scolastica, concentrandosi sull'elocutio (la forma
dell'espressione) e la classificazione delle figure del discorso. In questi
anni ad assumere l'onere di insegnarla sono membri della neonata Compagnia
di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1540: la Ratio
Studiorum, composta da alcuni gesuiti e pubblicata nel 1586,
stabilisce infatti che l'educazione dei giovani deve fondarsi essenzialmente
sullo studio della retorica latina e della cultura umanistica in generale.
Il Barocco (e in
seguito anche il Neoclassicismo) rappresentò un periodo particolarmente
prolifico per la stesura di trattati di retorica. L'intento era volto
soprattutto ad una classificazione minuta degli elementi del discorso e in
particolare delle figure retoriche.
Perelman e la Neoretorica
Gli ultimi trattati di un certo
interesse sono precedenti al 1830: Elements of Rhetoric di Richard Whately (1828)
e Les Figures du Discours di Pierre
Fontanier (1827-30). Negli stessi anni Shopenhayer stende una
serie di appunti sull'eristica,
confluiti in parte nei Parerga e
paralipomena e pubblicati postumi. Dal Romanticismo in poi
l'importanza della retorica si è progressivamente ridotta: a pesare è in
particolare l'atto di accusa mosso da Victor Hugo e da altri in nome
di un ritorno all'oggettività e all'originalità, riassumibile nella
massima «Guerra alla retorica, pace alla sintassi». Questi
intellettuali guardavano alla retorica come arte dell'artificio, orientata alla
soggettività del pubblico da persuadere, nemica, quindi, dell'originalità,
della naturalezza e dell'oggettività che devono invece essere proprie dell'Arte e
delle sue produzioni. Simili posizioni saranno condivise da molti intellettuali
negli anni a venire, tra cui, ad esempio, Francesco De Sanctis e Benedetto
Croce. La retorica, non più materia di studio, sopravvisse comunque all'interno
della stilistica e della poetica.
Nel
corso degli anni '50 del XX secolo la retorica è però tornata al
centro di una serie molto vasta e corposa di approfondimenti, soprattutto nelle
vesti di teoria dell'argomentazione,
grazie ai lavori di Theodor Viehweg, autore di Topik und Jurisprudenz del 1953, e soprattutto di Chaim
Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca con il loro Traité de l'argumentation. La nouvelle
rhétorique del 1958. Da questi nuovi orientamenti si svilupparono
varie teorie che, partendo dagli assunti della retorica classica, la
innovarono, studiandola alla luce di tematiche legate alla sensibilità moderna,
come la semiotica, la psicoanalisi,
ma anche la musica e la pubblicità: per tutti questi studi si
parla generalmente di Neoretorica.
Il rinato interesse nei
confronti della retorica è dovuto anzitutto alla riscoperta di questa
disciplina come arte del discorso persuasivo: mentre nei secoli precedenti, da
Ramus in avanti, il suo campo si era ridotto alla sola elocutio, con Perelman essa torna ad
essere ciò che era per Aristotele, ovvero la scienza che si occupa di trovare
gli argomenti più convincenti. A partire da Cartesio, i filosofi
hanno ritenuto che il dominio della ragione dovesse limitarsi a tutto ciò che
può essere verificato, escludendo quindi il verisimile, perché né vero né
falso; Perelman, con i suoi studi, rigetta questa posizione, affermando al
contrario che la retorica risponde alle caratteristiche reali della mente umana,
la quale procede formulando giudizi sulla base di premesse non vere ma
verisimili. Da qui, l'interesse dello studioso per l'uditorio, ovvero chi
fruisce il discorso, a partire dal quale vengono stabiliti i criteri di
giudizio e studiati gli argomenti. Su questa stessa linea si colloca il
filosofo italiano Giulio Preti, che nel saggio Retorica e logica separa il campo della retorica da quello
della logica, identificandoli rispettivamente con le scienze umanistiche e le
scienze esatte.
Decisamente rivolta alla teoria
letteraria è invece la retorica generale dei sei studiosi dell'Università di Liegi, Jacques
Dubois, Francis Edeline, Jean Marie Klinkenberg, Philippe
Minguet, Francois Pire, Hadeline Trinon, i quali negli anni '60
diedero vita al Gruppo di Liegi, meglio noto come Gruppo μ(dall'iniziale della parola greca μεταφορά, metaphorá). Rifacendosi alle ricerche
linguistiche di Roman Jakobson, e in particolare al modello della
teoria dell'informazione, gli esponenti del Gruppo
μ studiarono le varie figure del discorso con particolare attenzione non
solo al loro utilizzo in poesia e letteratura, ma anche a come vengono usate
nel quotidiano: la retorica diventa scienza del discorso in senso ampio e
analizza come le figure, alterando le strutture del linguaggio generando “scarti”,
integrano il codice della lingua superandone le limitazioni e le carenze.
Con un velo di polemica verso
questa retorica generale, Gérard Genette parla al contrario
di retorica ristretta: il campo della retorica è stato ridotto nel
corso dei secoli a quello dell'elocutio e
delle figure, trasformandosi da
scienza del discorso a teoria delle
figure o teoria della metafora (quest'ultima è infatti
sopravvissuta al naufragio della retorica, trovando fortuna nella poetica). Da
qui l'auspicio di un ritorno ad una retorica che sia davvero generale, con il
conseguente sviluppo di una serie di studi, molto differenti tra di loro, che
hanno analizzato la retorica sotto vari aspetti. Intellettuali come Roland
Barthes, Umberto Eco, Christian Metz, ad esempio, hanno studiato la
retorica in riferimento alla semiotica
e alla teoria dell'immagine,
applicandola a campi come il cinema e la pubblicità; inoltre, la
retorica ha destato interesse anche per la psicoanalisi, come strumento per
interpretare i simboli dell'inconscio.
Il
sistema della retorica classica
Sin dal suo sorgere, la
retorica ha avuto come scopo quello di classificare i vari elementi che
costituiscono l'arte della persuasione, organizzandoli in un sistema. La prima
e più importante opera in cui viene portato avanti questo progetto è la Retorica di Aristotele,
che influenzò tutti i retori delle epoche successive, fino al XIX secolo. In
epoca romana il sistema aristotelico fu ripreso da Cicerone e Quintiliano,
i quali lo svilupparono ulteriormente senza però modificarlo nella sostanza.
La Rhetorica ad Herennium, il più antico trattato di retorica latino,
riprendendo e ampliando le dottrine di Aristotele e Crisippo, distingue
cinque fasi nella stesura di un'orazione, coincidenti con altrettante parti di
cui si compone il sistema della retorica:
inventio (in
greco εὕρησις,
ricerca), ricercare le idee e gli argomenti per svolgere la tesi prefissata,
rifacendosi a topòi codificati;
dispositio (in
greco τάξις, disposizione), organizzare argomenti ed ornamenti nel discorso;
elocutio (in
greco λέξις, linguaggio), l'«espressione stilistica delle idee», con la scelta
di un lessico appropriato e di artifici retorici;
memoria (in
greco μνήμη, memoria), come memorizzare il discorso e ricordare le posizioni
avversarie per controbatterle;
actio o pronunciatio (in
greco ὑπόκρισις,
recitazione), declamazione del discorso modulando la voce e ricorrendo alla
gestualità.
L'invenzione: la scoperta degli
elementi persuasivi
La parola latina inventio, corrispondente al greco εὕρησις (héuresis), significa «ricerca», «scoperta»:
il primo passo che deve compiere un retore consiste nello scoprire (e non
nell'inventare) i possibili mezzi di persuasione che gli saranno utili al fine
di far accettare le sue tesi. La parte relativa all'inventio si occupa dunque di classificare i diversi argomenti
(veri o verisimili) stabilendo quale preferire a seconda del caso; vengono
anche studiati i diversi generi di discorso, a partire dall'oggetto di cui si
occupano e la situazione in cui devono essere pronunciati.
Funzioni e princìpi del
discorso persuasivo
Anzitutto, uno sguardo
preliminare alle funzioni che deve assolvere un discorso, che vengono così
indicate da Quintiliano:
docere
et probare, ovvero informare e convincere;
delectare,
catturare l'attenzione con un discorso vivace e non noioso;
movere,
commuovere il pubblico per far sì che aderisca alla tesi dell'oratore.
Inoltre, Reboul riassume in tre
princìpi fondamentali le regole che devono essere seguite dal retore per essere
persuasivo:
Principio
di non parafrasi. Anzitutto, un discorso efficace non deve
essere parafrasabile, cioè non si deve poter sostituire i suoi enunciati
portanti con altri enunciati senza che vi sia una perdita di informazioni, o
comunque un'alterazione del senso. Questo principio, osserva Reboul, diventa
più chiaro se si prendono in esame i tropi e le figure, le quali perdono di
significato se tradotte in un'altra lingua o se si tenta di cambiarne le
parole.
Principio
di chiusura. All'impossibilità di essere parafrasato si accompagna
l'irrefutabilità del discorso. In altre parole, per un avversario deve essere
impossibile – o quasi – ribattere a quanto detto dall'oratore, a meno che
anch'egli non trovi un argomento che si colloca sul medesimo livello. Un
esempio sono le formule, come gli slogan pubblicitari, la cui forza
risiede nell'impossibilità di replicarvi, se non appunto ricorrendo a un altro
slogan.
Principio
di trasferimento. Infine, il discorso persuasivo, per essere
tale, deve avere come punto di partenza una convinzione accettata dall'uditorio
e trasferita sull'oggetto del proprio discorso. Un'opinione radicata nelle
menti di molte persone, infatti, benché relativa apparirà comunque vera agli
occhi dei più, e la sua forza aumenterà con l'aumentare degli elementi affettivi
e intellettuali a suo favore. In questo modo anche i desideri diventano in
qualche misura reali, e il retore deve essere in grado di sfruttare questa
ambiguità per persuadere chi gli sta di fronte.
I generi del discorso
La retorica classica distingue
tre generi di discorso in base al loro oggetto (causa):
Genere
giudiziario (γένος δικανικόν, genus judiciale), il primo a essere
nato, si usa nei tribunali durante i processi e il suo fine è accusare o
difendere secondo il criterio del giusto.
Genere
deliberativo (γένος συμβουλευτικόν, genus deliberativum), il genere che
si usa quando si deve parlare davanti a un’assemblea politica, quando cioè si
deve consigliare i membri della comunità secondo il criterio dell'utile.
Genere
epidittico (γένος ἐπιδεικτικόν, genus demonstrativum), il genere
inventato, secondo Aristotele, da Gorgia, viene usato quando si deve tenere un
elogio di qualcuno o comunque si deve parlare davanti a un pubblico.
Argomentazione e persuasione
Per «argomento» si intende una
proposizione atta a farne ammettere un'altra, e quindi a indurre qualcuno
ad accettare la bontà di ciò che si sta dicendo. Argomentazione e persuasione(peithò) sono dunque
collegate, ma detto ciò bisogna precisare che il rapporto non è esclusivo,
poiché si può ottenere la persuasione anche da una dimostrazione o da un atto
di seduzione. Vediamone le differenze. La dimostrazione, il cui modello
sono le scienze esatte, ha la caratteristica di essere rigorosa e oggettiva,
e quindi di mirare a conclusioni che siano inattaccabili. Decisamente
irrazionale è invece la seduzione, che mira semplicemente ad influenzare e
manipolare gli altri facendo ricorso a sentimenti e sensazioni.
Tra queste due si colloca l'argomentazione, oggetto della retorica, la quale
mira sì a persuadere facendo leva sulle passioni, ma cerca di farlo in maniera
rigorosa, attraverso un'arte. Ciò che differenzia l'argomentazione dalla
dimostrazione è il carattere non necessario degli argomenti che vengono portati
a supporto della tesi: il retore infatti si rivolge sempre a delle persone
specifiche, delle quali prende in considerazione le opinioni e le sensazioni, e
il punto di partenza del suo discorso sono premesse non evidenti ma verisimili
(eikota) che portano a conclusioni
relative e confutabili. Inoltre, nell'argomentazione il nesso logico tra gli
elementi che la compongono non è rigoroso, e la sua validità è valutata in base
all'efficacia.
Mentre lo scienziato, dunque,
sostiene la propria teoria ricorrendo a dati oggettivi presentanti per mezzo di
un linguaggio simbolico, il retore cerca di persuadere gli altri attraverso le
parole e il linguaggio naturale, trovando e ordinando i possibili elementi di
persuasione. A questo scopo, il retore deve tener presenti non solo gli aspetti
razionali, ma anche quelli emotivi ed etici. Oltre al discorso (logos) in sé e per sé, che persuade
attraverso prove vere o apparentemente tali, a ricoprire un ruolo importante è
il carattere (ethos) dell'oratore,
che deve saper dimostrare di essere attendibile e di conoscere a fondo
l'oggetto di cui sta trattando, così da accattivarsi la fiducia del pubblico;
inoltre, è importante saper suscitare emozioni (πάθη) dispiacere o dolore negli
ascoltatori, poiché i sentimenti influenzano inevitabilmente la capacità di
giudizio del pubblico.
Prove tecniche e extra tecniche
Le prove da portare a favore
della tesi vengono suddivise da Aristotele in tecniche (o prove nella tecnica) e extra tecniche (o prove fuori-tecnica). Le prove extra tecniche (πίστεις ἄτεχνοι)
sono quelle che non dipendono direttamente dal retore, ma sono comunque a sua
disposizione, come le confessioni degli imputati, i testi scritti,
le leggi, le sentenze precedenti, le testimonianze e via
dicendo. Le prove tecniche (πίστεις ἔντεχνοι),
al contrario, sono quelle fornite al retore dall'esercizio della sua
arte. Queste ultime possono essere di due specie:
esempio o exemplum (παράδειγμα),
ovvero l'induzione retorica. L'esempio consiste nel ricorrere ad un
fatto particolare, reale o inventato (ma sempre verisimile), che abbia affinità
con l'oggetto dell'orazione, per poi generalizzarlo tramite induzione e
giungere infine a conclusioni la cui validità è solo particolare. A questo tipo
di prove sono ricollegabili l'argomento d'autorità, il modello, il precedente
giuridico;
entimema (ἐνθυμήμα),
ovvero la deduzione retorica.
Si tratta di un sillogismo basato su
premesse non vere ma verisimili (il verisimile ammette dei contrari), spesso
riprese da opinioni diffuse (in certi casi la premessa maggiore può anche
essere taciuta). Le premesse a loro volta possono essere di tre tipi:
gli
indizi sicuri (τεκμήρια), che possono essere verificati dai
nostri sensi e sono quindi necessariamente veri e incontrovertibili (in questo
caso l'entimema può coincidere con un
sillogismo);
i
fatti verisimili (εἰκότα), che vengono accettati
dalla maggior parte delle persone perché stabiliti da una legge o dalla morale comune;
i
segni (σημεῖα), una cosa che può indurre a farne intendere
un'altra: per esempio la presenza del sangue può richiamare alla mente un omicidio,
anche se l'associazione non è necessaria (il sangue può essere stato versato
per una semplice epistassi).