scuolaprofessionilegali
venerdì 8 maggio 2015
venerdì 24 aprile 2015
23 - L'ORGANIZZAZIONE E LA STRUTTURA DEI TESTI PROFESSIONALI
L’organizzazione
e la struttura dei testi professionali
I
testi professionali devono fornire informazioni e - eventualmente - argomenti
in un ordine razionale: essi presentano, cioè, i dati secondo una logica
riconoscibile e segmentandoli in maniera accurata: capoversi, paragrafi,
capitoli, sezioni, volumi corrispondono ad altrettante unità di contenuto e di
comunicazione, e non sono indotte nel continuum testuale
arbitrariamente.
È
indispensabile, a questo proposito, individuare una logica di presentazione
efficace (spaziale, cronologica, causale…) e fare in modo che il testo venga
suddiviso in porzioni corrispondenti al suo contenuto: vi saranno, dunque,
capitoli, che a loro volta verranno articolati in paragrafi, che a loro volta
saranno ripartiti in capoversi, identificati secondo la medesima logica
comunicativo-contenutistica.
La
titolazione
Un
ruolo importante nella strutturazione di un documento ha la titolazione. Per
quanto non esistano ricette che garantiscano il successo, è relativamente
semplice identificare alcuni criteri di massima che facilitano la creazione di
titoli quantomeno accettabili; essi sono (1) l'informatività; (2) la
specificità; (3) la chiarezza.
Il
titolo di un testo professionale deve essere informativo, nel senso che deve
fornire al lettore indicazioni in merito al suo contenuto, e cioè all'argomento
oggetto di trattazione; deve essere preciso, cioè sufficiente a fargli
comprendere quale aspetto dell'argomento vi venga preso in considerazione ed a
quale fine.
La
preparazione dell'abstract
L'abstract (o
riassunto di presentazione) è un complemento sempre più diffuso all'interno dei
documenti professionali. Esso è in genere rappresentato da un testo di poche
cartelle in cui si presentano, in estrema sintesi, la natura, gli obiettivi, i
risultati e le prospettive di sviluppo della ricerca intrapresa; lo si premette
ai testi di una certa estensione (dalle 15 pagine in su) in modo che i lettori
cui essi sono destinati possano farsi un'idea del loro contenuto e decidano se
leggerli ed, eventualmente, quali sezioni leggerne.
Si
distinguono in genere abstract descrittivi
(o strutturali) ed informativi (o sostanziali, o contenutistici: la
nomenclatura usata è piuttosto variabile). I primi si limitano a presentare un
quadro dell'argomento o degli argomenti affrontati nel testo; i secondi
forniscono invece informazioni precise anche sul contenuto del testo, e sono
per questo in genere più lunghi e complessi - ma anche più utili ed
informativamente più ricchi.
Si
tenga presente che l'abstract è un documento a se stante e che, in quanto tale,
deve essere dotato di indipendenza e di compiutezza: non deve prevedere la
lettura di alcuna parte del documento che riassume, neppure del glossario o
delle tavole. Termini specialistici o utilizzati in accezioni particolari
dovranno, quindi, essere spiegati contestualmente o - se possibile - evitati;
ai dati di tabelle o grafi si potrà fare cenno solo cursoriamente e per quanto
necessario alla comprensione del contenuto generale del testo: i dettagli esplicativi
saranno invece riservati al documento vero e proprio. Se è strettamente
necessario visualizzare tabelle o altri complementi grafici, li si dovrà
ripetere.
La preparazione del sommario
In
un testo professionale il sommario costituisce un valido supplemento all'abstract,
perché raggruppa e presenta in formato di lista i titoli di tutti i capitoli ed
i sottocapitoli del documento. In linea di massima si suggerisce di elencare -
utilizzando caratteri che permettano di distinguere a prima vista la gerarchia
dei componenti - tutti i titoli sino al terzo livello, omettendo, se sono
presenti, sottopartizioni di livelli inferiori. Alcuni scriventi, tuttavia,
preferiscono riportare tutti i titoli, anche a rischio di generare liste molto
lunghe e complesse: è una scelta la cui opportunità deve essere valutata di
volta in volta, in base a criteri di funzionalità
La
scrittura della premessa
La Premessa costituisce
un elemento del paratesto, e non del testo vero e proprio: ad essa, quindi - se
presente - si dovrebbero affidare solo informazioni di contorno (per esempio,
indicazioni sulle ragioni che hanno spinto ad intraprendere lo studio o
chiarimenti in merito alla sua collocazione all'interno di progetti più ampi);
le indicazioni più strettamente pertinenti al testo (quelle relative alle sue
finalità, ai metodi, alla struttura…), invece, dovranno invece essere spostate
nell'Introduzione, che ne costituisce invece la prima parte.
La
stesura dell'Introduzione
Al
contrario della Premessa,
l'Introduzione pone
il lettore entro il
documento. In generale, l'introduzione di un documento professionale
risponde a quattro fini fondamentali:
indicare
la natura del testo;
chiarire
la sua funzione;
precisare
quali siano le conoscenze presupposte ai fini della sua comprensione ed
eventualmente - valutate le caratteristiche del proprio uditorio - fornire
informazioni di supporto;
evidenziare
quale sia la sua struttura.
In
particolare, per quanto attiene al punto a., si dovrebbero chiarire,
nell'Introduzione, quali siano l'estensione ed i limiti del documento: quali,
cioè, gli argomenti trattati, quale l'ottica in cui essi sono presi in
considerazione, quale la prospettiva adottata nella trattazione (si potranno
anche indicare, naturalmente, quali siano gli argomenti che non si sono presi
in considerazione, le variabili che non si sono tenute in conto, i quadri
problematici che si sono ignorati).
Per quanto concerne il punto b., si dovrebbero precisare nel segmento introduttivo del documento non solo le finalità per cui il testo è stato realizzato, ma anche le ragioni che fanno di esso un contributo utile alla comunità degli intellettuali; se possibile - soprattutto in ambito tecnico - è buona norma mettere in evidenza anche potenziali vantaggi pratici che derivino dall'uso dei dati raccolti nello scritto o dall'implementazione dei suggerimenti che esso fornisce.
Per quanto concerne il punto b., si dovrebbero precisare nel segmento introduttivo del documento non solo le finalità per cui il testo è stato realizzato, ma anche le ragioni che fanno di esso un contributo utile alla comunità degli intellettuali; se possibile - soprattutto in ambito tecnico - è buona norma mettere in evidenza anche potenziali vantaggi pratici che derivino dall'uso dei dati raccolti nello scritto o dall'implementazione dei suggerimenti che esso fornisce.
Quanto
poi il punto c., sarebbe utile fornire, in una sezione dell'Introduzione, le
notizie di fondo che appaiono funzionali a rendere più facile e completa, al
proprio uditorio, la comprensione del testo: è ovvio che la quantità di
informazioni deve essere tanto più ampia quanto più settoriale è il testo e
quanto meno specialistico è il suo destinatario primario.
In
merito, infine, al punto .d, ci si dovrebbe preoccupare di chiarire sempre,
secondo modalità variabili, quali siano l'articolazione e la struttura del
documento, costruendone una sorta di "mappa" che guidi il lettore
nella sua interpretazione.
L'articolazione
in sezioni
Dove
si dovrebbero operare i tagli in un testo scientifico? Non è facile dare una
risposta che non rischi di essere generica: un suggerimento sempre valido è
quello di considerare il brano che si vorrebbe trasformare in una unità formale
(sezione, capitolo, paragrafo, capoverso) verificando che esso coincida
effettivamente con un'unità di informazione, chiaramente distinta da quelle che
lo precedono e lo seguono, per quanto ad esse collegato.
Si
verifichi anche che tale unità, se più ampia di un capoverso, possa essere
titolata: il fatto di poter dare un titolo informativo ad una porzione di testo
indica che essa si diffonde su un argomento preciso; il fatto contrario,
invece, suggerisce, di norma, che il segmento testuale non è sufficientemente
indipendente e che deve essere, per questo, accorpato a quello che lo precede o
a quello che lo segue.
Nel
caso di un capoverso, l'applicazione di un titolo può sembrare pretestuosa: può
essere allora più utile tentare di identificarne la frase guida o topic
sentence, che dovrebbe esprimere il nucleo informativo del capoverso: se
essa è presente ed è facilmente individuabile, quello che si sta analizzando è
un paragrafo ben formato, altrimenti dovrà essere rivisto e completato.
La
scrittura delle conclusioni
La
conclusione di un testo tecnico-scientifico e professionale contiene, di norma, (a) la
presentazione delle conclusioni cui ha condotto la propria indagine; (b) una
loro analisi e(c), se ciò ha un senso, la proposta di un loro sviluppo
applicativo o teoretico.
Le
appendici documentarie ed iconografiche e gli allegati
L'allestimento
di una o più appendici documentarie risponde, in generale a differenti
esigenze: quella di offrire informazioni dettagliate, che non possono essere
incluse nel corpo del testo perché troppo ampie o perché, comunque, tali da interrompere
il flusso testuale; quella di fornire informazioni utili soprattutto
all'uditorio secondario; quella di arricchire la propria documentazione con
materiale interessante ma di interesse collaterale e, quindi, non collocabile
entro il nucleo testuale principale.
A
fini analoghi rispondono le appendici iconografiche; si aggiunga che, in alcuni
casi, la scelta di collocare in appendice il materiale iconografico è reso
necessario dalla gestione del documento: se, infatti, la collocazione di
figure, diagrammi e grafici in prossimità del testo che vi fa riferimento è
senz'altro la soluzione comunicativamente più efficace, quando l'apparato sia
particolarmente esteso o quando le illustrazioni siano molto voluminose, essa
non è praticabile. Non resta, dunque, in questi casi, che inserire le immagini
indispensabili nel corpo del testo e rinviare al resto della documentazione in
appendice.
Si
ricordi che le appendici devono essere numerate in sequenza (Appendice 1,
Appendice 2 ecc. oppure Appendice A, Appendice B ecc.) e portare un titolo
esplicativo (Appendice1: testi e documenti su significato e referenza nella
filosofia del linguaggio; Appendice 2: diagramma di flusso per l'allestimento
di un sito Web, dalla progettazione alla messa in linea; Appendice A: testo del
protocollo di intesa per la realizzazione del progetto Alfa-gammatronics).
venerdì 17 aprile 2015
22 - Un esempio di scrittura paratattica: A. Campanile, La quercia del Tasso
Quell'antico tronco d'albero che
si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco,
morto,
corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è
stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama
la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi
sotto, quand'essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano
così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno
tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da
essa, c'era, ai tempi del grande e infelice poeta, un'altra quercia fra le cui
radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti
tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava
della quercia del Tasso con la "t" maiuscola e della quercia del
tasso con la "t" minuscola. In verità c'era anche un tasso nella
quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall'altro, lo
chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse
al poeta, perciò lo chiamavano "il tasso del Tasso"; e l'albero era
detto "la quercia del tasso del Tasso" da alcuni, e "la quercia
del Tasso del tasso" da altri.
Siccome c'era un altro Tasso
(Bernardo, padre di Torquato, poeta anch'egli), il quale andava a mettersi
sotto un olmo, il popolino diceva: "È il Tasso dell'olmo o il Tasso della
quercia?".
Così poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?".
"Della quercia del Tasso."
Così poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?".
"Della quercia del Tasso."
E dell'animaletto di cui sopra,
ch'era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: "il tasso
del Tasso della quercia del Tasso".
Poi c'era la guercia del Tasso:
una poverina con un occhio storto, che s'era dedicata al poeta e perciò era
detta "la guercia del Tasso della quercia", per distinguerla da
un'altra guercia che s'era dedicata al Tasso dell'olmo (perché c'era un grande
antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una
quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: "la
quercia della guercia del Tasso"; mentre quella del Tasso era detta:
"la quercia del Tasso della guercia": qualche volta si vide anche la
guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche
nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
Viveva.
E lo chiamarono: "il tasso
della quercia della guercia del Tasso", mentre l'albero era detto:
"la quercia del tasso della guercia del Tasso" e lei: "la
guercia del Tasso della quercia del tasso".
Successivamente Torquato cambiò
albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi),
che per un certo tempo fu detto: "il tasso del Tasso".
Anche il piccolo quadrupede del
genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero
sotto il nuovo albero, l'animaletto venne indicato come: "il tasso del
tasso del Tasso".
Quanto a Bernardo, non potendo
trasferirsi all'ombra d'un tasso perché non ce n'erano a portata di mano, si
spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu
chiamato da allora: "il tasso barbasso del Tasso"; e Bernardo fu
chiamato: "il Tasso del tasso barbasso", per distinguerlo dal Tasso
del tasso.
Quanto al piccolo tasso di
Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell'animaletto fu indicato
da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal
tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso,
per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i
due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma
fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso
del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.
20 - Un esempio di scrittura ipotattica: E. Ionesco, La cantatrice calva, Il raffreddore
IL RAFFREDDORE
Mio
cognato, dal lato paterno aveva un cugino germano, lo zio materno del quale
aveva un suocero il cui nonno paterno aveva sposato in seconde nozze una
giovane indigena, il cui fratello, nei suoi viaggi, aveva incontrato una
ragazza della quale si era innamorato e dalla quale aveva avuto un figlio che
sposò poi un’intrepida farmacista, la quale altro non era che la nipote di uno
sconosciuto quartiermastro della Marina Britannica, il di cui padre adottivo
aveva una zia in grado di parlare correttamente lo spagnolo e che era, forse,
una delle nipoti di un ingegnere morto in giovane età, nipote a sua volta di un
proprietario di vigne dalle quali si ricavava un vino assai mediocre, ma che
aveva un cugino, casalingo e sottotenente, il cui figlio aveva sposato una
graziosissima signora, un po’ divorziata, il primo marito della quale era
figlio di un vero patriota che aveva saputo educare una delle proprie figlie
nell’ambizione di fare fortuna, la quale era riuscita a sposare un fattorino
che aveva conosciuto Rothschild e il cui fratello, dopo aver cambiato parecchi
mestieri, si sposò ed ebbe una figlia, il cui bisnonno, gracilino, portava gli
occhiali che gli aveva regalati un suo cugino, cognato di un portoghese, figlio
naturale di un mugnaio, non troppo povero, il fratello di latte del quale aveva
preso in moglie la figlia di un medico di campagna, a sua volta fratello di
latte di un lattaio, a sua volta figlio naturale di un altro medico di
campagna, sposato tre volte di seguito, e di cui la terza moglie era la figlia
della migliore levatrice della regione e che, vedova di buonora, come mia
moglie, si era sposata con un vetraio pieno di zelo, il quale, alla figlia di
un capostazione, aveva fatto un figlio destinato a fare la sua strada, ferrata,
come la mazza, e aveva sposato una venditrice di spazzature, il cui padre aveva
un fratello, sindaco di una piccola città, che aveva preso in moglie una
maestra bionda, il cugino della quale, pescatore con la rete, ferroviaria,
aveva preso in moglie un’altra maestra bionda, chiamata Maria, il cui fratello
aveva sposato un’altra Maria, anche lei maestra bionda, il cui padre era stato
allevato nel Canada da una vecchia, che era nipote di un parroco, la nonna del
quale, talvolta, d’inverno, come capita a tutti, si buscava un raffreddore.
da LA CANTATRICE CALVA
di E. Ionesco
21 - LA PARATASSI
paratassi
1. Definizione e
delimitazione
La paratassi è una connessione ordinata di frasi in
un’entità superiore, in cui le frasi interessate hanno diverso valore
informativo e sono collegate tra loro da nessi semantici. Insieme alla
subordinazione e alla coordinazione, la paratassi è una delle principali forme
di collegamento tra elementi linguistici.
Il termine paratassi (dalla preposizione gr. pará «presso, vicino» e il nome táxis «disposizione,
ordine»), formato sul modello di sintassi,
fu coniato nel 1826 dal grecista F.W. Thiersch insieme col termine
complementare ipotassi (dalla preposizione gr. ypó «sotto»). Il significato
originario allude all’‘accostamento’ di unità linguistiche di livello
equivalente, come invece è proprio delle relazioni ipotattiche.
Va segnalato che la coppia
terminologica paratassi-ipotassi non è entrata nella tradizione
grammaticale italiana. Per es., non se ne trova menzione nella Sintassi italiana di Fornaciari (1881: 416-429), che
prevedeva solo il coordinamento e ilsubordinamento come possibili tipi di relazione tra
le frasi. La coppia è per lo più impiegata come sinonimo di coordinazione e subordinazione, a base latina
(Serianni 1988: 447-50; Devoto & Oli 1971: 1621; Beccaria 20042:
418), e viene usata soprattutto in relazione allo studio delle lingue
classiche.
Tra la fine del XX secolo e
l’inizio del XXI la paratassi è stata al centro di un esteso dibattito (Avanzi,
Beguelin & Corminboeuf 2010), innescato da nuove prospettive teoriche, come
gli studi di grammatica testuale, di analisi del discorso e più in generale
della linguistica dei corpora. Molti fenomeni, anche molto diversi
tra di loro, sono stati quindi considerati paratattici; tra questi, la
giustapposizione, in particolare le apposizioni, i complementi predicativi, gli
anacoluti e perfino le strutture correlative.
L’esistenza di relazioni
paratattiche è stata discussa in particolare tra le questioni generali
concernenti l’origine delle lingue indoeuropee. È stata ipotizzata
un’anteriorità diacronica delle costruzioni paratattiche e correlative rispetto
a quelle subordinative e ipotattiche, che sarebbero da esse derivate. È stato
osservato però che ogni lingua, in particolare se giunta alla modalità scritta,
possiede già nei suoi stadi antichi sia costruzioni ipotattiche che
paratattiche.
2. Coordinazione, subordinazione
e paratassi
Solitamente identificata con la
coordinazione, la paratassi ne va invece accuratamente distinta; un’altra
distinzione va fatta rispetto alla subordinazione.
2.1 Coordinazione e paratassi
Una struttura coordinata ha
essenzialmente i caratteri seguenti:
(a) all’interno di una frase si
moltiplicano, nel caso di enumerazioni, o si duplicano costituenti di uguale
rango;
(b) si instaurano relazioni
copulative, avversative o alternative, mediante congiunzioni (sindesi) o senza (asindesi);
la coordinazione, quindi, può interessare costituenti di qualsiasi livello:
parole, sintagmi, frasi. Questi fenomeni si osservano negli esempi seguenti:
(1) la ragazza era bella e
stupida → la ragazza era bella, superficiale, (e) stupida
(2) Mario e Carlo studiano
medicina → Mario, Carlo, (e) Luigi studiano medicina
(3) Mario ha eseguito il lavoro
con competenza e con passione → Mario ha eseguito il lavoro con competenza, con
passione, (e) con fatica
(4) Mario frequenta il
Conservatorio e si sta specializzando in violino → Mario frequenta il
Conservatorio, si sta specializzando in violino, (e) studia composizione
La coordinazione richiede che i
costituenti coordinati abbiano la stessa funzione e facciano parte della stessa
configurazione sintattica. Da un punto di vista semantico, essi partecipano
alla composizione del significato della frase e al conseguimento del suo valore
di verità, avendo tutti la stessa modalità (Bally 1971: 65-78). Inoltre, l’ordine
degli elementi di una coordinazione non dovrebbe essere rilevante; esso non è
un carattere necessario per il realizzarsi di una relazione semantica
(condizionale, concessiva, ecc.), come invece accade in una relazione
paratattica.
Dal canto suo, una relazione
paratattica non contiene costituenti di qualsiasi livello, ma solo frasi, o
comunque (come si vedrà sotto a proposito del parlato) entità predicative (Le
Goffic 1993: 501-502; López García 1999: 3513; Quirk et al. 199915:
918-919). Le frasi in relazione paratattica non sono la duplicazione di un
costituente in una stessa configurazione sintattica, ma ciascuna è una
configurazione sintattica autonoma.
Da un punto di vista semantico,
inoltre, ciascuna frase in relazione paratattica ha una propria modalità.
Questo fatto può essere illustrato da un insieme di caratteri, che si
presentano in mescolanze varie. Tra i principali, le frasi in relazione di
paratassi possono:
(a) avere diverso soggetto;
(b) appartenere a tipi diversi
(frase dichiarativa, interrogativa, imperativa, ottativa, esclamativa);
(c) avere predicati dalla
semantica diversa (verbo di stato, di azione, di percezione, di parola, di
giudizio);
(d) avere diversa qualità (frase
nominale, verbale, positiva, negativa, di citazione, di discorso
riportato);
(e) variare per caratteristiche
di diatesi e aspetto;
(f) avere diverse coordinate
deittiche[1].
L’ordine degli elementi, poi, è
una condizione necessaria al compimento dell’effetto semantico complessivo.
Inoltre, nel parlato le entità linguistiche paratattiche devono essere scandite
da unità prosodiche diverse.
In conclusione: mentre le unità
coordinate, o in enumerazione, possono essere di qualsiasi livello linguistico,
ma devono essere omogenee per funzione sintattica e caratteristiche modali e il
loro ordine non è un tratto necessario, le unità in paratassi possono essere
solo frasi, devono essere distinte per modalità e devono essere ‘accostate’
secondo un ordine perché possa aversi un certo effetto semantico. Quindi il
loro accostamento non produce tanto un’aggiunta d’informazione quanto una
connessione semantica di livello testuale.
2.2 Paratassi e
subordinazione
Per taluni aspetti la connessione
coordinativa e paratattica ha delle affinità con la subordinazione, e la scelta
dell’una o dell’altra risalirebbe all’intenzione del parlante di potenziare o
indebolire la tensione emotiva, riducendosi ad una dimensione stilistica.
Infatti, la maggior parte delle relazioni di subordinazione può essere tradotta
in coordinazione, e viceversa, facendo sì che esse siano interscambiabili e
quindi differenziate in modo instabile.Già Fornaciari (1881: 426), uno dei
primi espliciti sostenitori dell’ipotesi dell’equivalenza, opera un confronto
tra periodi con relazioni di subordinazione e i loro equivalenti ‘trasformati’
con relazioni di coordinazione:
(5) poiché hai disprezzato i miei
consigli, io ti abbandono → hai disprezzato i miei consigli e io ti abbandono
(6) la virtù è così bella, che
l’amano perfino i malvagi ~ anche i malvagi amano la virtù: tanto essa è bella
Si noti come in (5) la seconda
frase ‘trasformata’ sia connessa alla prima da e, una congiunzione
coordinante ma anche rafforzativa. In
(6), poi, l’autore ha sentito la necessità di invertire l’ordine delle frasi e
di connetterle con un segno interpuntivo peculiare (i due punti), al fine di
realizzare un effetto esplicativo. In realtà proprio le seconde frasi delle
coppie (5) e (6), presentate da Fornaciari come casi di coordinazione,
potrebbero essere considerate casi di paratassi, i quali in effetti meglio
convogliano l’impatto emotivo delle versioni con la struttura di
subordinazione.
3. Proprietà della
paratassi
È quindi giustificato chiedersi
se le relazioni paratattiche siano davvero diverse da quelle di coordinazione e
subordinazione e quali caratteristiche abbiano. Può aiutare nel compito l’esame
di alcuni esempi del latino, in cui la paratassi si manifesta in varie forme
(esempi tratti da Orlandini & Poccetti 2010):
(7) filiam quis habet, pecunia est opus (Cicerone, Rhet. 44)
«figlia chi ha, soldi c’è
bisogno» [= «qualcuno (chi) ha una figlia, (per lui) i soldi sono necessari»]
(8) ostende bellum, pacem habebis «mostra la guerra, la pace avrai» [=
«fa’ mostra di guerra, avrai la pace»]
(9) vix ea fatus eram, tremere omnia visa repente (Virgilio, En. III, 90)
«appena quelle cose detto avevo,
tremare tutto fu visto d’un tratto» [= «avevo appena detto ciò, (che)
all’improvviso tutto sembra tremare»]
(10) video meliora proboque, deteriora sequor (Ovidio, Met. VII, 20)
«vedo il meglio e approvo, il
peggio seguo» [= «vedo le cose migliori e le approvo, seguo le peggiori»]
(11) fremant omnes licet, dicam quod sentio (Cicerone, De Orat. I,195)
«fremano tutti è lecito, dirò
quel che penso» [= «che tutti protestino è lecito, (comunque è lecito anche)
che io dica ciò che penso»]
(12) ne sit sane summum malum dolor, malum certe est (Cicerone, Tusc. II, 14)
«non sia certo sommo male il
dolore, male certo è» [= «che non sia sicuramente il dolore il male sommo, (ma)
certamente è male»]
In tutti questi esempi si ha la
sequenza di due frasi, che si trovano sullo stesso piano sintattico e sono
accostate in uno stesso periodo senza congiunzioni (diversamente dai casi di
coordinazione sindetica e di subordinazione esplicita). È dal punto di vista
dell’organizzazione dell’informazione che le due unità non hanno ugual valore;
benché ciascuna abbia senso a sé, solo la presenza della seconda frase produce
l’effetto complessivo dell’intero periodo. L’accostamento delle due frasi
infatti può dare espressione a significati diversi: in (7) e (8) la relazione è
condizionale ipotetica (periodo ipotetico), (9) mostra una
relazione di contemporaneità (temporalità, espressione della),
in (10) è sviluppato un valore contrastivo, in (11) e (12) tramite
l’espressione è lecito e l’avverbio certamente viene evocata una relazione concessiva.Il
valore semantico della sequenza paratattica si definisce nel contesto e non è
predeterminato linguisticamente.
In connessione a ciò si può
notare che la sequenza delle frasi ha però ordine fisso: esse non possono
essere invertite, pena il mancato effetto semantico. Da un punto di vista
informativo, quindi, la prima frase ha funzione di tema (o di sfondo; tematica, struttura), la seconda costituisce il centro
dell’informazione dato che indica i possibili nessi semantici: condizionali,
temporali, contrastivi, concessivi. Va notato che se gli esempi fossero di
lingua parlata, ciascuna frase dovrebbe avere un’apposita unità prosodica, la
prima separata dalla seconda da ciò che tradizionalmente si indica come pausa virtuale.
Già dalle traduzioni degli esempi
latini è facile dedurre che anche in italiano sono possibili, e anche
frequenti, costrutti simili, e quindi anche per l’italiano appare congruo
ipotizzare che la paratassi vada distinta dalla coordinazione. Gli esempi da
(13) a (17) potrebbero valere come modelli paratattici produttivi per
l’italiano:
(13) studia, sarai promosso
(14) si lamenta, tutti si mettono
a disposizione
(15) parto, (che) ti piaccia o no
(16) ha un bel provarci, non ci riesce
(17) fosse pure la mia ultima
occasione, tenterò
Questi esempi condividono tutte
le caratteristiche già esposte per il latino, riproducendo relazioni
condizionali (13), contrastive (14) e concessive (15-17).
4. La paratassi nell’uso parlato
Tutti gli esempi fattibili di
come paratassi nel parlato potrebbero essere connessi al loro interno da
un’espressione avverbiale (e, ma, ed ecco, perciò,quindi).
Parallelamente, però, qualsiasi connettivo potrebbe anche essere soppresso,
senza con ciò causare la perdita della relazione paratattica. Dunque, se i
connettivi sono ammissibili e appropriati in una relazione paratattica, essi
sono però opzionali, perché servono solo a esplicitare o rafforzare il nesso
semantico che in ogni caso la connessione ordinata delle due unità
realizzerebbe.
Un’altra caratteristica del
parlato italiano è che uno o entrambi gli enunciati della relazione paratattica
possono non essere né frasi né sintagmi verbali, ma sintagmi nominali o
aggettivali, come in (20), (23), (24), (26). Ciò nonostante essi hanno piena
funzione predicativa e svolgono in maniera appropriata il ruolo di una delle
entità in relazione paratattica. Questa possibilità è tipica del parlato, nel
quale una qualsiasi espressione, purché dotata di intonazione appropriata, può
svolgere un atto linguistico e quindi essere pienamente predicativa.
Il ricorso a frasi nominali, del
resto, è comune in massime e proverbi, condivisi da tutte le lingue romanze e
germaniche. Spesso essi sono fondati proprio sulla connessione ordinata, ovvero
sulla paratassi, di due frasi nominali, di cui la prima serve da premessa o
sfondo a una seconda conclusiva, come si vede dai seguenti esempi inglesi:
(27) no work, no money «niente lavoro, niente soldi»
(28) out of sight, out of mind «lontano dagli occhi, lontano dal
cuore»
Le due frasi nominali, in
relazione paratattica, possono naturalmente essere legate da un connettivo come quindi o perciò.
Questa caratteristica consente di fare un confronto con le frasi nominali
semplici, spesso annoverate tra i casi di paratassi. Vediamo un proverbio (29)
e una frase nominale di uso quotidiano (30):
(29) dalla padella nella brace
(30) giovedì gnocchi
Si deve notare che nessun
connettivo (e, ma, perciò, quindi) potrebbe essere
inserito in (29) e (30). Ciascuna delle due parti della frase nominale non è a
sua volta una frase nominale e non è di per sé interpretabile, sicché tra le
due parti non si può sviluppare nessuno degli effetti semantici propri della
paratassi. La loro combinazione realizza semplicemente una predicazione
nominale.
Gli esempi fin qui notati – per
il latino, l’italiano parlato e l’inglese – possono essere considerati come un
repertorio abbastanza ampio dei modelli paratattici, condiviso dalla gran parte
delle lingue romanze e di quelle germaniche (Jespersen 1924; Matthews 1981; Le
Goffic 1993; Quirk et al.
199915, López García 1999).
5. La paratassi nell’uso
scritto
I fenomeni paratattici fin qui
presentati ricorrono anche nella lingua scritta e
sono attestati in maniera sistematica nelle recenti opere letterarie italiane,
anche se identificarli può esser meno semplice che nel parlato. Riportiamo vari
esempi tratti da autori della seconda metà del XX secolo e degli inizi del XXI:
(31) È vero che lavora mio padre;
e vorreste non godesse qualche lira delle venti facendo il fiasco all’osteria?
(Vasco Pratolini, Il
Quartiere, Milano 1968, p. 46)
(32) Entrò come un’ombra, e seppi
di averlo davanti al tavolino prima ancora di levare gli occhi (Cesare Pavese, La spiaggia, Torino 1968, p.
138)
(33) Mai le donne l’avrebbero
salvata: e le mancava l’uomo (Italo Calvino,L’avventura di un bagnante,
Torino 1970, p. 1080)
(34) Tutto il resto […] ora tace,
questi in fila e in piedi, […] quelli finalmente sciolti dalle corazze, […]
eccoli già lì che russano (Calvino, Il
cavaliere inesistente, Torino 1973, p. 14)
(35) Quelli sposati non si
occupavano più di nulla: lo vedeva col cognato (Carlo Cassola, Ferrovia locale, Torino 1982,
p. 7)
(36) il prete e una coppia di
professori a riposo […] sono morti e altre tre persone sono rimaste ferite, e
avrebbe potuto essere peggio se non fosse stato sabato pomeriggio con anche il
sole (Andrea De Carlo, Uto,
Milano 1995, p. 10)
(37) Non so niente, che cosa è la
rottura delle acque? (Giuseppe Pontiggia, Nati
due volte, Milano 2000, p. 16)
(38) L’unica pietà l’ho ricevuta
dagli infedeli, Dio li ricompensi evitando di dannarli come meriterebbero
(Umberto Eco, Baudolino,
Milano 2000, p. 493)
(39) Chiedeva, infatti, il signor
Roccella, del questore: una follia, specialmente a quell’ora e in quella
particolare serata (Leonardo Sciascia, Una
storia semplice, Milano 2001, p. 12)
(40) Naturalmente non accadde
nulla, Dio non si scomoda per un uomo ridicolo (Margaret Mazzantini, Non ti muovere, Milano 2001,
p. 217)
(41) Sono stanco ma non ho
finito, lasciami riposare un po’ ma non te ne andare, resta, apri bene le
orecchie, perché è importante (Antonio Tabucchi, Tristano muore, Milano 2004,
p. 90)
La sequenza delle unità
predicative, indipendentemente dal fatto che alcune non siano verbali (come in
34 e 39) e dal loro numero (come in 34, 36 e 41), ha ordine fisso, pena il non
raggiungimento di un significato o effetto complessivo di varia natura
semantica, che può essere apprezzato solo nell’intero periodo. Ed è proprio per
via della loro indipendenza e del loro ordine che le frasi paratattiche possono
sviluppare forme peculiari di testo, a volte non facilmente definibili, sottili
e vaghe, ma certo stilisticamente significative.
Possiamo notare che anche negli
esempi da (31) a (41) si ha una connessione entro uno stesso periodo,
graficamente identificato da segni interpuntivi forti, di due o più unità
predicative o frasi chiaramente differenziate per modalità. Le unità si trovano
sullo stesso piano sintattico, ciascuna è identificata da segni interpuntivi
deboli (virgola, punto e virgola, due punti), accompagnati o no da connettivi
(come in 31, 32, 33, 36, 41). La diversificazione modale delle unità frasali è
ottenuta sfruttando l’insieme di quei tratti che, come notato, possono
concorrere all’assegnazione del valore modale.
da Enciclopedia
dell'Italiano (2011)
http://www.treccani.it/enciclopedia/paratassi_(Enciclopedia_dell'Italiano)/
[1] Deittico: di elemento, espressione che si riferisce alle
coordinate spazio-temporali o ai protagonisti di un enunciato (p.e. là, ora, il mese scorso, io, tuo)
19 - L'IPOTASSI
IPOTASSI
L’ipotassi (o subordinazione;
dal greco hypotàxis ‘dipendenza’) è il rapporto sintattico
che si stabilisce tra due proposizioni collegate nel testo in maniera
gerarchica, in modo che l’una – chiamata proposizione subordinata (o anche secondaria) –
risulti dipendente logicamente e grammaticalmente dall’altra, che può essere
autonoma (ed è chiamata allora proposizione principale) o a sua
volta subordinata (ed è chiamata allora reggente o sovraordinata).
Questo rapporto di dipendenza può
essere introdotto in vari modi.
• Tramite congiunzioni
subordinative e preposizioni di vario genere
Quando arriverà, sarà tutto diverso
Arrivò per risolvere la situazione
• Con pronomi e avverbi
subordinanti di vario tipo (che svolgono funzione di congiunzione)
Mi chiedo cosa resterà
Non so chi sia
Una proposizione subordinata a
sua volta può diventare reggente e introdurre un’altra proposizione subordinata
(di III grado) e così via, creando un collegamento logico e sintattico che dà
coesione al testo
Arrivò a casa per rimproverare
Luigi, che si era ammalato quando era uscito per andare a comprare il giornale
Arrivò a casa = proposizione
principale, reggente della proposizione secondaria di I grado
per rimproverare Luigi =
proposizione secondaria di I grado, reggente della proposizione secondaria di
II grado
che si era ammalato =
proposizione secondaria di II grado, reggente della proposizione secondaria di
III grado
quando era uscito = proposizione
secondaria di III grado, reggente della proposizione secondaria di IV grado
per andare a comprare il giornale
= proposizione secondaria di IV grado
Inoltre, i modi e i tempi del
verbo della proposizione dipendente sono regolati in base a quelli della
reggente, secondo le leggi della cosiddetta consecutio temporum.
In alcuni casi lo stesso rapporto
logico reso con l’ipotassi può essere espresso con la paratassi (o coordinazione)
Poiché ha lavorato molto, è
stanco (subordinata causale e
proposizione principale)
È stanco, infatti ha lavorato
molto (principale e coordinata
esplicativa)
Ha lavorato molto, ed è stanco (principale e coordinata copulativa).
venerdì 10 aprile 2015
20 - LA RETORICA (parte seconda)
I
luoghi (topoi)
Con il termine «luogo» (in
greco τόπος, tópos, in
latino locus) in retorica si
intende un argomento ricorrente, organizzato in forme convenzionali e stereotipate a
uso e consumo del retore. Il topos,
nella sua convenzionalità, è infatti immediatamente riconoscibile da parte
dell'uditore, e permette al retore di disporre di un elemento di sicuro effetto
da utilizzare nelle orazioni. La teoria dei topoi, detta appunto topica,
si deve quasi integralmente ad Aristotele, che ne trattò nei Topici e poi nel Libro II della Retorica come
forma di argomentazione dialettica. Generalmente, se ne distinguono due
tipi: comuni e propri.
I luoghi comuni (τόποι κοινόι) partono da punti di vista generali,
opinioni accettate dalla maggior parte degli individui, che appunto in quanto
generali valgono per quasi tutti gli argomenti. Aristotele ne classifica 3 tipi: possibile/impossibile, reale/non
reale, più/meno.
I luoghi propri (εἶδος), invece, sono specifici e variano a seconda
del pubblico, della disciplina e del tipo di discorso. Si tratta di
proposizioni particolari, legati alla pratica di ciascuna determinata
disciplina, la cui validità viene però riconosciuta da tutti.
La disposizione: la struttura
del discorso
La seconda parte del sistema
della retorica riguarda la dispositio (in greco τάξις, taxis, oppure οἰκονομία, oikonomía), cioè l'organizzazione del
discorso: le parti di cui si compone il discorso, l'ordine in cui presentare i
contenuti e le idee, l'ordine delle parole per presentare gli argomenti.
Con particolare attenzione alla
retorica giudiziaria, la retorica classica ha formulato uno schema per
strutturare i discorsi, il quale può essere seguito rigorosamente o meno.
L'orazione prevede quattro parti, nell'ordine:
exordium,
esordio, tentativo di accattivarsi l'uditorio delectando e movendo con
ornamenti;
narratio,
esposizione, esposizione dei fatti, per docere l'uditorio, in ordine cronologico
o con una introduzione ad effetto in
medias res;
argumentatio,
argomentazione, dimostrazione delle prove a sostegno della
tesi (confirmatio) e confutazione
degli argomenti avversari (refutatio);
peroratio,
epilogo, la conclusione del discorso, muovendo al massimo gli
affetti dell'uditorio e sviluppando pathos.
Esordio
L'esordio (προoίμιον, exordium)
è la parte che apre l'orazione, in cui viene esposto, sempre che non sia già
noto, l'oggetto di cui ci si intende occupare (πρότασις). Il suo scopo è quello
di accattivarsi i favori del pubblico (captatio
benevolentiae) e annunciare le ripartizioni che si stanno per adottare
nello svolgimento dell'orazione (partitio). Se
la situazione lo permette, è possibile chiedere esplicitamente all'uditorio di
essere benevoli, altrimenti si deve ricorrere all'insinuatio, entrare nell'animo degli ascoltatori per via
sotterranea, evitando di parlare dei propri punti deboli per mostrare invece
quelli degli avversari. Inoltre, è importante rendere subito nota la struttura
dell'orazione e l'ordine degli argomenti, così da rendere il pubblico partecipe
dei termini del discorso ed evitare che sembri troppo lungo.
Per accattivare e rendere più
partecipi le giurie - nel caso dell'orazione giudiziaria greca, in particolare
- all'interno del προoίμιον venivano inserite talvolta espressioni o periodi
che sottolineavano la presa di coscienza da parte dell'oratore della difficoltà
dell'argomento trattato o della sentenza da emettere (ad es. "mi rendo
conto di quanto sia difficile per voi, o Ateniesi, giudicare...").
Si tenga presente che, nel caso
si intenda trattare l'argomento in
medias res, l'esordio e l'epilogo possono essere evitati.
Esposizione
L'esposizione (διήγησις o anche ῥῆσις, narratio) è il resoconto succinto, chiaro e verisimile dei fatti
che vengono affrontati, così che sia funzionale all'argomentazione. Due sono i
generi di disposizione dei contenuti: l'ordo
naturalis, che segue lo svolgimento logico e cronologico degli
eventi, e l'ordo artificialis,
orientato più alla resa estetica tramite l'uso di figure retoriche, digressioni e altri procedimenti stilistici.
Quest'ultimo è anche più intellettuale, poiché rompe la linearità del tempo per
assecondare le esigenze della situazione e dell'argomento.
Nell'esposizione dei fatti è
inoltre necessario perseguire quello che è il «giusto mezzo», non essere cioè
troppo prolissi ma nemmeno tanto brevi da tralasciare qualcosa di importante.
Bisogna poi ricordare che è essenziale la verosimiglianza dei fatti, i quali
devono essere attendibili e devono essere disposti in maniera tale da assolvere
alle tre funzioni della retorica: docere, movere e delectare.
Argomentazione
Cuore del discorso persuasivo è
l'argomentazione (πίστις o ἀπόδειξις, argumentatio), il resoconto delle prove
a sostegno della tesi, che può prevedere anche un affondo contro le tesi
avversarie. La sua struttura interna si compone di due parti: propositio e confirmatio, a cui può seguire una
terza, l'altercatio. La propositio è una definizione
ristretta della causa (o delle cause) da dibattere, subito seguita dalla confirmatio, l'elenco delle ragioni a
favore, nell'ordine: dapprima quelle più forti, in seguito le più deboli e
infine le più forti in assoluto. Talvolta, specie durante un processo, la confirmatio può essere interrotta
dall'intervento di un avversario, come ad esempio un avvocato di parte opposta:
in questo caso si parla di altercatio,
un dialogo serrato tra il retore e il suo avversario.
Epilogo
(perorazione)
L'epilogo (ἐπίλογος, peroratio) è la parte conclusiva
dell'orazione, e si muove su due livelli: riprende e riassume le cose dette (enumeratio e rerum repetitio), tocca le corde dei
sentimenti (ratio posita in affectibus).
Da un lato, il retore deve concludere dando un'idea d'insieme di quanto è stato
detto e sostenuto, richiamando alla memoria i punti fondamentali; dall'altro,
ha luogo la perorazione vera e propria, che fa leva sui sentimenti
dell'uditorio ricorrendo a dei loci prestabiliti (in genere atti a
creare indignazione o commiserazione).
L'elocuzione: lo stile
L'elocuzione (elocutio in latino,
λέξις, lexis, in greco)
è la parte che riguarda l'espressione, la forma da dare alle idee. L'elocutio si occupa dello stile da
scegliere affinché il discorso risulti efficace, studiando quindi la parte
estetica dell'espressione, la scelta (electio)
e l'ordine (compositio) da dare alle
parole. Sotto questo aspetto la retorica invade il campo della poetica,
riprendendone gli elementi di ornamento, tra cui le più importanti sono
le figure.
La composizione
La parte centrale dell'elocutio è rappresentata dalla
cosiddetta compositio,
operazione che consiste nella scelta e combinazione dei termini. Affinché il
discorso possa risultare efficace, è necessario tenere conto nella fase di
composizione di quattro qualità o
requisiti fondamentali, meglio noti come virtutes elocutionis:
l'aptum (in greco πρέπον, prépon), l'adeguatezza del discorso al contesto in cui deve essere
pronunciato;
la puritas (o latinitas),
la correttezza sintattica e grammaticale;
la perspicuitas, la chiarezza, necessaria affinché il discorso sia
comprensibile;
l'ornatus, gli ornamenti e tutti gli altri mezzi atti a rendere il
discorso più bello e quindi più gradevole.
Tutte queste caratteristiche
devono essere presenti, applicate o a singole parole o a intere frasi. Talvolta
il mancato rispetto di una delle virtutes può
essere giustificato da determinate esigenze espressive, e in questo caso si
parla di licenza (licentia); in caso contrario, la
mancanza viene sanzionata come errore
(vitium).
Gli stili
L'espressione varia a seconda
degli argomenti e della situazione in cui il discorso deve essere pronunciato.
Per questo motivo, la retorica classica distingue tre stili (genera elocutionis):
nobile
o sublime (genus sublime o grave),
umile
(genus humile o tenue),
medio
o moderato (genus medium).
Il sublime è lo stile nobile, elevato, e viene utilizzato per
trattare di argomenti seri facendo leva sui sentimenti (movere), suscitando forti passioni; l'umile ha lo scopo di docere et probare, mentre lo stile medio, misto dei due precedenti,
deve delectare attraverso
un atteggiamento moderato che tenga conto dell'ethos.
La memoria
La mnemotecnica, la scienza che mira a sviluppare la memoria attraverso
una serie di regole, è molto antica: tra gli intellettuali che si interessarono
di questa disciplina ricordiamo il sofista Ippia di Elide e i
filosofi Raimondo Lullo, Pico della Mirandola e Giordano
Bruno. Nel corso del Seicento la mnemotecnica classica finì per
essere assimilata alla ars
combinandi, teoria della combinazione degli elementi associata al calcolo
matematico.
La memoria entra a pieno titolo
nel sistema della retorica classica a partire dal Libro
III della Rhetorica ad
Herennium (I secolo a.C.), e ricopre un ruolo importante in funzione
della recitazione, poiché
permette di mandare a mente la struttura e gli argomenti del discorso senza
dover ricorrere ad appunti scritti, risultando particolarmente utile quando la
situazione richiede di improvvisare. Generalmente si distinguono due tipi di
memoria: la memoria naturale e quella artificiale. La prima è la dotazione
naturale di cui dispongono tutti gli individui, mentre la seconda, che ha lo
scopo di rafforzare la prima, viene appresa tramite una tecnica – la
mnemotecnica, appunto – che funziona attraverso immagini e punti di riferimento
fissi, ai quali vanno associati gli oggetti da ricordare: in questo modo l'atto
del ricordare diventa una scrittura mentale, in cui ad ogni immagine
corrisponde un oggetto e quindi un significato.
La recitazione
Infine, il retore deve anche
essere in grado di recitare la propria orazione di fronte a un pubblico. Questo
momento prende il nome latino di actio o pronunciatio (in greco ὐπόκρισις, hypókrisis), e la sua efficacia è legata
al modo in cui chi parla si presenta di fronte all'uditorio. Al retore è dunque
richiesto di essere anche attore, di avere cioè buone capacità di recitazione,
così da coinvolgere il pubblico attraverso la gestualità e il tono
di voce. La sua indubbia importanza è stata tuttavia messa in secondo
piano dai retori e dai teorici, che nei loro trattati preferiscono concentrarsi
su inventio, dispositio ed elocutio, specie in riferimento
alla produzione di testi scritti.
Le figure del discorso
Oltre ad occuparsi della
costruzione del discorso, la retorica si interessa anche allo studio degli
ornamenti, e in particolar modo all'uso delle figure. In origine le figure erano usate esclusivamente
in poesia; il primo a farne uso in prosa, a quanto sappiamo, fu Gorgia:
la retorica gorgiana si caratterizzava infatti per una forte enfasi e una
grande ricercatezza stilistica, e il suo periodare era reso melodico dall'uso
frequente di espedienti ricavati dalla poesia.
Il termine «figura» (σχῆμα, schēma) è usato per la prima volta
da Anassimene di Lampsaco (IV secolo a.C.), ma il primo a studiare le
figure in modo sistematico è Aristotele, il cui allievo Demetrio Falereo in
seguito proporrà la distinzione tra figure
del discorso e figure del
pensiero. Nel corso dei secoli, e soprattutto in epoca barocca, i
teorici si sono impegnati in un'imponente opera di classificazione delle varie figure, senza però giungere ad una tassonomia condivisa.
In particolare, a destare interesse sono le figure
di significazione, altrimenti dette tropi,
la cui collocazione è oggetto di dibattito: talvolta i tropi vengono
semplicemente inseriti insieme alle altre tipologie di figure, mentre altre
volte vengono distinti e ad esse opposti. Di seguito si riporta, a titolo
esemplificativo, la classificazione proposta da Fontanier (1830), citata a
pagina 144 del Manuale di retorica di Bice Mortara Garavelli, nella
quale le figure del discorso sono divise in tropi
e non tropi.
FIGURE DEL DISCORSO
|
|
Tropi
|
Figure di
significazione (tropi veri e propri)
|
Figure di espressione
(tropi impropriamente detti)
|
|
Non tropi
|
Figure di dizione
(metaplasmi)
|
Figure di costruzione
|
|
Figure di elocuzione
|
|
Figure di stile
|
|
Figure di pensiero
|
Τρόπος (trópos) in greco propriamente significa «direzione», ma
il suo significato originario è stato successivamente abbandonato per quello di
«deviazione», «conversione». Per tropo infatti si intende una variazione (mutatio) del significato di un'espressione
rispetto al suo significato originario; i tropi propri (figure di
significazione) riguardano singole parole, mentre quelli impropri (figure di espressione) riguardano più parole o parti di frasi. Sul
loro numero e la loro classificazione non vi è accordo; quelli fondamentali, a
cui possono essere ricondotti tutti gli altri, sono 3: metafora, metonimia, sineddoche. La metafora (da metapherein,
trasportare) è il più classico dei tropi, e consiste nella sostituzione di una
parola con un'altra il cui senso ha qualche affinità con la parola che
sostituisce. Si ha invece una metonimia quando
si definisce un oggetto con un termine diverso, il cui significato è però
continuo a quello dell'oggetto in questione (per esempio: «cuore» per indicare
i sentimenti, «Foscolo» per indicare le sue opere). La sineddoche infine (talvolta confusa
con la metonimia) consiste nel definire un oggetto con un termine legato ad
esso tramite rapporti di causalità o inclusione (per esempio: «legno» per
indicare un'imbarcazione, «felino» per indicare un gatto). Oltre a queste
tre, Lausberg classifica come tropi anche: antonomasia, enfasi, litote, iperbole, perifrasi, ironia, metalessi.
Le altre figure retoriche, che
Fontanier classifica come «non tropi» e suddivide in cinque classi, vengono più
semplicemente divise dalla retorica antica in due gruppi: figure di parole (in cui rientrano
le figure di dizione, costruzione,
elocuzione e stile) e figure del
pensiero. Le figure di parole
riguardano l'espressione linguistica, e si costruiscono per addizione (ripetizione, climax, paronomasia etc.)
o soppressione di parole (ellissi, asindeto e zeugma), oppure ancora per
mutamento dell'ordine delle parole (anastrofe, iperbato etc.).
Le figure di pensiero invece
interessano le idee o le immagini che appaiono dalla frase, e si ottengono per
addizione o sottrazione (ossimoro, chiasmo etc.),
oppure per variazione (hysteron
proteron, apostrofe etc.).
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