venerdì 10 aprile 2015

20 - LA RETORICA (parte seconda)

I luoghi (topoi)
Con il termine «luogo» (in greco τόπος, tópos, in latino locus) in retorica si intende un argomento ricorrente, organizzato in forme convenzionali e stereotipate a uso e consumo del retore. Il topos, nella sua convenzionalità, è infatti immediatamente riconoscibile da parte dell'uditore, e permette al retore di disporre di un elemento di sicuro effetto da utilizzare nelle orazioni. La teoria dei topoi, detta appunto topica, si deve quasi integralmente ad Aristotele, che ne trattò nei Topici e poi nel Libro II della Retorica come forma di argomentazione dialettica. Generalmente, se ne distinguono due tipi: comuni e propri.
I luoghi comuni (τόποι κοινόι) partono da punti di vista generali, opinioni accettate dalla maggior parte degli individui, che appunto in quanto generali valgono per quasi tutti gli argomenti. Aristotele ne classifica 3 tipi: possibile/impossibile, reale/non reale, più/meno.
I luoghi propriδος), invece, sono specifici e variano a seconda del pubblico, della disciplina e del tipo di discorso. Si tratta di proposizioni particolari, legati alla pratica di ciascuna determinata disciplina, la cui validità viene però riconosciuta da tutti.

La disposizione: la struttura del discorso
La seconda parte del sistema della retorica riguarda la dispositio (in greco τάξις, taxis, oppure οκονομία, oikonomía), cioè l'organizzazione del discorso: le parti di cui si compone il discorso, l'ordine in cui presentare i contenuti e le idee, l'ordine delle parole per presentare gli argomenti.
Con particolare attenzione alla retorica giudiziaria, la retorica classica ha formulato uno schema per strutturare i discorsi, il quale può essere seguito rigorosamente o meno. L'orazione prevede quattro parti, nell'ordine:
exordium, esordio, tentativo di accattivarsi l'uditorio delectando e movendo con ornamenti;
narratio, esposizione, esposizione dei fatti, per docere l'uditorio, in ordine cronologico o con una introduzione ad effetto in medias res;
argumentatio, argomentazione, dimostrazione delle prove a sostegno della tesi (confirmatio) e confutazione degli argomenti avversari (refutatio);
peroratio, epilogo, la conclusione del discorso, muovendo al massimo gli affetti dell'uditorio e sviluppando pathos.

Esordio
L'esordio (προoίμιον, exordium) è la parte che apre l'orazione, in cui viene esposto, sempre che non sia già noto, l'oggetto di cui ci si intende occupare (πρότασις). Il suo scopo è quello di accattivarsi i favori del pubblico (captatio benevolentiae) e annunciare le ripartizioni che si stanno per adottare nello svolgimento dell'orazione (partitio). Se la situazione lo permette, è possibile chiedere esplicitamente all'uditorio di essere benevoli, altrimenti si deve ricorrere all'insinuatio, entrare nell'animo degli ascoltatori per via sotterranea, evitando di parlare dei propri punti deboli per mostrare invece quelli degli avversari. Inoltre, è importante rendere subito nota la struttura dell'orazione e l'ordine degli argomenti, così da rendere il pubblico partecipe dei termini del discorso ed evitare che sembri troppo lungo.
Per accattivare e rendere più partecipi le giurie - nel caso dell'orazione giudiziaria greca, in particolare - all'interno del προoίμιον venivano inserite talvolta espressioni o periodi che sottolineavano la presa di coscienza da parte dell'oratore della difficoltà dell'argomento trattato o della sentenza da emettere (ad es. "mi rendo conto di quanto sia difficile per voi, o Ateniesi, giudicare...").
Si tenga presente che, nel caso si intenda trattare l'argomento in medias res, l'esordio e l'epilogo possono essere evitati.

Esposizione
L'esposizione (διήγησις o anche ῥῆσις, narratio) è il resoconto succinto, chiaro e verisimile dei fatti che vengono affrontati, così che sia funzionale all'argomentazione. Due sono i generi di disposizione dei contenuti: l'ordo naturalis, che segue lo svolgimento logico e cronologico degli eventi, e l'ordo artificialis, orientato più alla resa estetica tramite l'uso di figure retoriche, digressioni e altri procedimenti stilistici. Quest'ultimo è anche più intellettuale, poiché rompe la linearità del tempo per assecondare le esigenze della situazione e dell'argomento.
Nell'esposizione dei fatti è inoltre necessario perseguire quello che è il «giusto mezzo», non essere cioè troppo prolissi ma nemmeno tanto brevi da tralasciare qualcosa di importante. Bisogna poi ricordare che è essenziale la verosimiglianza dei fatti, i quali devono essere attendibili e devono essere disposti in maniera tale da assolvere alle tre funzioni della retorica: docere, movere e delectare.

Argomentazione
Cuore del discorso persuasivo è l'argomentazione (πίστις o πόδειξις, argumentatio), il resoconto delle prove a sostegno della tesi, che può prevedere anche un affondo contro le tesi avversarie. La sua struttura interna si compone di due parti: propositio e confirmatio, a cui può seguire una terza, l'altercatio. La propositio è una definizione ristretta della causa (o delle cause) da dibattere, subito seguita dalla confirmatio, l'elenco delle ragioni a favore, nell'ordine: dapprima quelle più forti, in seguito le più deboli e infine le più forti in assoluto. Talvolta, specie durante un processo, la confirmatio può essere interrotta dall'intervento di un avversario, come ad esempio un avvocato di parte opposta: in questo caso si parla di altercatio, un dialogo serrato tra il retore e il suo avversario.

Epilogo (perorazione)
L'epilogo (πίλογος, peroratio) è la parte conclusiva dell'orazione, e si muove su due livelli: riprende e riassume le cose dette (enumeratio e rerum repetitio), tocca le corde dei sentimenti (ratio posita in affectibus). Da un lato, il retore deve concludere dando un'idea d'insieme di quanto è stato detto e sostenuto, richiamando alla memoria i punti fondamentali; dall'altro, ha luogo la perorazione vera e propria, che fa leva sui sentimenti dell'uditorio ricorrendo a dei loci prestabiliti (in genere atti a creare indignazione o commiserazione).
L'elocuzione: lo stile
L'elocuzione (elocutio in latino, λέξις, lexis, in greco) è la parte che riguarda l'espressione, la forma da dare alle idee. L'elocutio si occupa dello stile da scegliere affinché il discorso risulti efficace, studiando quindi la parte estetica dell'espressione, la scelta (electio) e l'ordine (compositio) da dare alle parole. Sotto questo aspetto la retorica invade il campo della poetica, riprendendone gli elementi di ornamento, tra cui le più importanti sono le figure.

La composizione
La parte centrale dell'elocutio è rappresentata dalla cosiddetta compositio, operazione che consiste nella scelta e combinazione dei termini. Affinché il discorso possa risultare efficace, è necessario tenere conto nella fase di composizione di quattro qualità o requisiti fondamentali, meglio noti come virtutes elocutionis:
l'aptum (in greco πρέπον, prépon), l'adeguatezza del discorso al contesto in cui deve essere pronunciato;
la puritas (o latinitas), la correttezza sintattica e grammaticale;
la perspicuitas, la chiarezza, necessaria affinché il discorso sia comprensibile;
l'ornatus, gli ornamenti e tutti gli altri mezzi atti a rendere il discorso più bello e quindi più gradevole.
Tutte queste caratteristiche devono essere presenti, applicate o a singole parole o a intere frasi. Talvolta il mancato rispetto di una delle virtutes può essere giustificato da determinate esigenze espressive, e in questo caso si parla di licenza (licentia); in caso contrario, la mancanza viene sanzionata come errore (vitium).

Gli stili
L'espressione varia a seconda degli argomenti e della situazione in cui il discorso deve essere pronunciato. Per questo motivo, la retorica classica distingue tre stili (genera elocutionis):
nobile o sublime (genus sublime o grave),
umile (genus humile o tenue),
medio o moderato (genus medium).
Il sublime è lo stile nobile, elevato, e viene utilizzato per trattare di argomenti seri facendo leva sui sentimenti (movere), suscitando forti passioni; l'umile ha lo scopo di docere et probare, mentre lo stile medio, misto dei due precedenti, deve delectare attraverso un atteggiamento moderato che tenga conto dell'ethos.

La memoria
La mnemotecnica, la scienza che mira a sviluppare la memoria attraverso una serie di regole, è molto antica: tra gli intellettuali che si interessarono di questa disciplina ricordiamo il sofista Ippia di Elide e i filosofi Raimondo Lullo, Pico della Mirandola e Giordano Bruno. Nel corso del Seicento la mnemotecnica classica finì per essere assimilata alla ars combinandi, teoria della combinazione degli elementi associata al calcolo matematico.
La memoria entra a pieno titolo nel sistema della retorica classica a partire dal Libro III della Rhetorica ad Herennium (I secolo a.C.), e ricopre un ruolo importante in funzione della recitazione, poiché permette di mandare a mente la struttura e gli argomenti del discorso senza dover ricorrere ad appunti scritti, risultando particolarmente utile quando la situazione richiede di improvvisare. Generalmente si distinguono due tipi di memoria: la memoria naturale e quella artificiale. La prima è la dotazione naturale di cui dispongono tutti gli individui, mentre la seconda, che ha lo scopo di rafforzare la prima, viene appresa tramite una tecnica – la mnemotecnica, appunto – che funziona attraverso immagini e punti di riferimento fissi, ai quali vanno associati gli oggetti da ricordare: in questo modo l'atto del ricordare diventa una scrittura mentale, in cui ad ogni immagine corrisponde un oggetto e quindi un significato.

La recitazione
Infine, il retore deve anche essere in grado di recitare la propria orazione di fronte a un pubblico. Questo momento prende il nome latino di actio o pronunciatio (in greco πόκρισις, hypókrisis), e la sua efficacia è legata al modo in cui chi parla si presenta di fronte all'uditorio. Al retore è dunque richiesto di essere anche attore, di avere cioè buone capacità di recitazione, così da coinvolgere il pubblico attraverso la gestualità e il tono di voce. La sua indubbia importanza è stata tuttavia messa in secondo piano dai retori e dai teorici, che nei loro trattati preferiscono concentrarsi su inventio, dispositio ed elocutio, specie in riferimento alla produzione di testi scritti.

Le figure del discorso
Oltre ad occuparsi della costruzione del discorso, la retorica si interessa anche allo studio degli ornamenti, e in particolar modo all'uso delle figure. In origine le figure erano usate esclusivamente in poesia; il primo a farne uso in prosa, a quanto sappiamo, fu Gorgia: la retorica gorgiana si caratterizzava infatti per una forte enfasi e una grande ricercatezza stilistica, e il suo periodare era reso melodico dall'uso frequente di espedienti ricavati dalla poesia.
Il termine «figura» (σχμα, schēma) è usato per la prima volta da Anassimene di Lampsaco (IV secolo a.C.), ma il primo a studiare le figure in modo sistematico è Aristotele, il cui allievo Demetrio Falereo in seguito proporrà la distinzione tra figure del discorso figure del pensiero. Nel corso dei secoli, e soprattutto in epoca barocca, i teorici si sono impegnati in un'imponente opera di classificazione delle varie figure, senza però giungere ad una tassonomia condivisa. In particolare, a destare interesse sono le figure di significazione, altrimenti dette tropi, la cui collocazione è oggetto di dibattito: talvolta i tropi vengono semplicemente inseriti insieme alle altre tipologie di figure, mentre altre volte vengono distinti e ad esse opposti. Di seguito si riporta, a titolo esemplificativo, la classificazione proposta da Fontanier (1830), citata a pagina 144 del Manuale di retorica di Bice Mortara Garavelli, nella quale le figure del discorso sono divise in tropi e non tropi.
FIGURE DEL DISCORSO
Tropi
Figure di significazione (tropi veri e propri)
Figure di espressione (tropi impropriamente detti)
Non tropi
Figure di dizione (metaplasmi)
Figure di costruzione
Figure di elocuzione
Figure di stile
Figure di pensiero
Τρόπος (trópos) in greco propriamente significa «direzione», ma il suo significato originario è stato successivamente abbandonato per quello di «deviazione», «conversione». Per tropo infatti si intende una variazione (mutatio) del significato di un'espressione rispetto al suo significato originario; i tropi propri (figure di significazione) riguardano singole parole, mentre quelli impropri (figure di espressione) riguardano più parole o parti di frasi. Sul loro numero e la loro classificazione non vi è accordo; quelli fondamentali, a cui possono essere ricondotti tutti gli altri, sono 3: metafora, metonimia, sineddoche. La metafora (da metapherein, trasportare) è il più classico dei tropi, e consiste nella sostituzione di una parola con un'altra il cui senso ha qualche affinità con la parola che sostituisce. Si ha invece una metonimia quando si definisce un oggetto con un termine diverso, il cui significato è però continuo a quello dell'oggetto in questione (per esempio: «cuore» per indicare i sentimenti, «Foscolo» per indicare le sue opere). La sineddoche infine (talvolta confusa con la metonimia) consiste nel definire un oggetto con un termine legato ad esso tramite rapporti di causalità o inclusione (per esempio: «legno» per indicare un'imbarcazione, «felino» per indicare un gatto). Oltre a queste tre, Lausberg classifica come tropi anche: antonomasia, enfasi, litote, iperbole, perifrasi, ironia, metalessi.
Le altre figure retoriche, che Fontanier classifica come «non tropi» e suddivide in cinque classi, vengono più semplicemente divise dalla retorica antica in due gruppi: figure di parole (in cui rientrano le figure di dizione, costruzione, elocuzione e stile) e figure del pensiero. Le figure di parole riguardano l'espressione linguistica, e si costruiscono per addizione (ripetizione, climax, paronomasia etc.) o soppressione di parole (ellissi, asindeto e zeugma), oppure ancora per mutamento dell'ordine delle parole (anastrofe, iperbato etc.). Le figure di pensiero invece interessano le idee o le immagini che appaiono dalla frase, e si ottengono per addizione o sottrazione (ossimoro, chiasmo etc.), oppure per variazione (hysteron proteron, apostrofe etc.).