I
luoghi (topoi)
Con il termine «luogo» (in
greco τόπος, tópos, in
latino locus) in retorica si
intende un argomento ricorrente, organizzato in forme convenzionali e stereotipate a
uso e consumo del retore. Il topos,
nella sua convenzionalità, è infatti immediatamente riconoscibile da parte
dell'uditore, e permette al retore di disporre di un elemento di sicuro effetto
da utilizzare nelle orazioni. La teoria dei topoi, detta appunto topica,
si deve quasi integralmente ad Aristotele, che ne trattò nei Topici e poi nel Libro II della Retorica come
forma di argomentazione dialettica. Generalmente, se ne distinguono due
tipi: comuni e propri.
I luoghi comuni (τόποι κοινόι) partono da punti di vista generali,
opinioni accettate dalla maggior parte degli individui, che appunto in quanto
generali valgono per quasi tutti gli argomenti. Aristotele ne classifica 3 tipi: possibile/impossibile, reale/non
reale, più/meno.
I luoghi propri (εἶδος), invece, sono specifici e variano a seconda
del pubblico, della disciplina e del tipo di discorso. Si tratta di
proposizioni particolari, legati alla pratica di ciascuna determinata
disciplina, la cui validità viene però riconosciuta da tutti.
La disposizione: la struttura
del discorso
La seconda parte del sistema
della retorica riguarda la dispositio (in greco τάξις, taxis, oppure οἰκονομία, oikonomía), cioè l'organizzazione del
discorso: le parti di cui si compone il discorso, l'ordine in cui presentare i
contenuti e le idee, l'ordine delle parole per presentare gli argomenti.
Con particolare attenzione alla
retorica giudiziaria, la retorica classica ha formulato uno schema per
strutturare i discorsi, il quale può essere seguito rigorosamente o meno.
L'orazione prevede quattro parti, nell'ordine:
exordium,
esordio, tentativo di accattivarsi l'uditorio delectando e movendo con
ornamenti;
narratio,
esposizione, esposizione dei fatti, per docere l'uditorio, in ordine cronologico
o con una introduzione ad effetto in
medias res;
argumentatio,
argomentazione, dimostrazione delle prove a sostegno della
tesi (confirmatio) e confutazione
degli argomenti avversari (refutatio);
peroratio,
epilogo, la conclusione del discorso, muovendo al massimo gli
affetti dell'uditorio e sviluppando pathos.
Esordio
L'esordio (προoίμιον, exordium)
è la parte che apre l'orazione, in cui viene esposto, sempre che non sia già
noto, l'oggetto di cui ci si intende occupare (πρότασις). Il suo scopo è quello
di accattivarsi i favori del pubblico (captatio
benevolentiae) e annunciare le ripartizioni che si stanno per adottare
nello svolgimento dell'orazione (partitio). Se
la situazione lo permette, è possibile chiedere esplicitamente all'uditorio di
essere benevoli, altrimenti si deve ricorrere all'insinuatio, entrare nell'animo degli ascoltatori per via
sotterranea, evitando di parlare dei propri punti deboli per mostrare invece
quelli degli avversari. Inoltre, è importante rendere subito nota la struttura
dell'orazione e l'ordine degli argomenti, così da rendere il pubblico partecipe
dei termini del discorso ed evitare che sembri troppo lungo.
Per accattivare e rendere più
partecipi le giurie - nel caso dell'orazione giudiziaria greca, in particolare
- all'interno del προoίμιον venivano inserite talvolta espressioni o periodi
che sottolineavano la presa di coscienza da parte dell'oratore della difficoltà
dell'argomento trattato o della sentenza da emettere (ad es. "mi rendo
conto di quanto sia difficile per voi, o Ateniesi, giudicare...").
Si tenga presente che, nel caso
si intenda trattare l'argomento in
medias res, l'esordio e l'epilogo possono essere evitati.
Esposizione
L'esposizione (διήγησις o anche ῥῆσις, narratio) è il resoconto succinto, chiaro e verisimile dei fatti
che vengono affrontati, così che sia funzionale all'argomentazione. Due sono i
generi di disposizione dei contenuti: l'ordo
naturalis, che segue lo svolgimento logico e cronologico degli
eventi, e l'ordo artificialis,
orientato più alla resa estetica tramite l'uso di figure retoriche, digressioni e altri procedimenti stilistici.
Quest'ultimo è anche più intellettuale, poiché rompe la linearità del tempo per
assecondare le esigenze della situazione e dell'argomento.
Nell'esposizione dei fatti è
inoltre necessario perseguire quello che è il «giusto mezzo», non essere cioè
troppo prolissi ma nemmeno tanto brevi da tralasciare qualcosa di importante.
Bisogna poi ricordare che è essenziale la verosimiglianza dei fatti, i quali
devono essere attendibili e devono essere disposti in maniera tale da assolvere
alle tre funzioni della retorica: docere, movere e delectare.
Argomentazione
Cuore del discorso persuasivo è
l'argomentazione (πίστις o ἀπόδειξις, argumentatio), il resoconto delle prove
a sostegno della tesi, che può prevedere anche un affondo contro le tesi
avversarie. La sua struttura interna si compone di due parti: propositio e confirmatio, a cui può seguire una
terza, l'altercatio. La propositio è una definizione
ristretta della causa (o delle cause) da dibattere, subito seguita dalla confirmatio, l'elenco delle ragioni a
favore, nell'ordine: dapprima quelle più forti, in seguito le più deboli e
infine le più forti in assoluto. Talvolta, specie durante un processo, la confirmatio può essere interrotta
dall'intervento di un avversario, come ad esempio un avvocato di parte opposta:
in questo caso si parla di altercatio,
un dialogo serrato tra il retore e il suo avversario.
Epilogo
(perorazione)
L'epilogo (ἐπίλογος, peroratio) è la parte conclusiva
dell'orazione, e si muove su due livelli: riprende e riassume le cose dette (enumeratio e rerum repetitio), tocca le corde dei
sentimenti (ratio posita in affectibus).
Da un lato, il retore deve concludere dando un'idea d'insieme di quanto è stato
detto e sostenuto, richiamando alla memoria i punti fondamentali; dall'altro,
ha luogo la perorazione vera e propria, che fa leva sui sentimenti
dell'uditorio ricorrendo a dei loci prestabiliti (in genere atti a
creare indignazione o commiserazione).
L'elocuzione: lo stile
L'elocuzione (elocutio in latino,
λέξις, lexis, in greco)
è la parte che riguarda l'espressione, la forma da dare alle idee. L'elocutio si occupa dello stile da
scegliere affinché il discorso risulti efficace, studiando quindi la parte
estetica dell'espressione, la scelta (electio)
e l'ordine (compositio) da dare alle
parole. Sotto questo aspetto la retorica invade il campo della poetica,
riprendendone gli elementi di ornamento, tra cui le più importanti sono
le figure.
La composizione
La parte centrale dell'elocutio è rappresentata dalla
cosiddetta compositio,
operazione che consiste nella scelta e combinazione dei termini. Affinché il
discorso possa risultare efficace, è necessario tenere conto nella fase di
composizione di quattro qualità o
requisiti fondamentali, meglio noti come virtutes elocutionis:
l'aptum (in greco πρέπον, prépon), l'adeguatezza del discorso al contesto in cui deve essere
pronunciato;
la puritas (o latinitas),
la correttezza sintattica e grammaticale;
la perspicuitas, la chiarezza, necessaria affinché il discorso sia
comprensibile;
l'ornatus, gli ornamenti e tutti gli altri mezzi atti a rendere il
discorso più bello e quindi più gradevole.
Tutte queste caratteristiche
devono essere presenti, applicate o a singole parole o a intere frasi. Talvolta
il mancato rispetto di una delle virtutes può
essere giustificato da determinate esigenze espressive, e in questo caso si
parla di licenza (licentia); in caso contrario, la
mancanza viene sanzionata come errore
(vitium).
Gli stili
L'espressione varia a seconda
degli argomenti e della situazione in cui il discorso deve essere pronunciato.
Per questo motivo, la retorica classica distingue tre stili (genera elocutionis):
nobile
o sublime (genus sublime o grave),
umile
(genus humile o tenue),
medio
o moderato (genus medium).
Il sublime è lo stile nobile, elevato, e viene utilizzato per
trattare di argomenti seri facendo leva sui sentimenti (movere), suscitando forti passioni; l'umile ha lo scopo di docere et probare, mentre lo stile medio, misto dei due precedenti,
deve delectare attraverso
un atteggiamento moderato che tenga conto dell'ethos.
La memoria
La mnemotecnica, la scienza che mira a sviluppare la memoria attraverso
una serie di regole, è molto antica: tra gli intellettuali che si interessarono
di questa disciplina ricordiamo il sofista Ippia di Elide e i
filosofi Raimondo Lullo, Pico della Mirandola e Giordano
Bruno. Nel corso del Seicento la mnemotecnica classica finì per
essere assimilata alla ars
combinandi, teoria della combinazione degli elementi associata al calcolo
matematico.
La memoria entra a pieno titolo
nel sistema della retorica classica a partire dal Libro
III della Rhetorica ad
Herennium (I secolo a.C.), e ricopre un ruolo importante in funzione
della recitazione, poiché
permette di mandare a mente la struttura e gli argomenti del discorso senza
dover ricorrere ad appunti scritti, risultando particolarmente utile quando la
situazione richiede di improvvisare. Generalmente si distinguono due tipi di
memoria: la memoria naturale e quella artificiale. La prima è la dotazione
naturale di cui dispongono tutti gli individui, mentre la seconda, che ha lo
scopo di rafforzare la prima, viene appresa tramite una tecnica – la
mnemotecnica, appunto – che funziona attraverso immagini e punti di riferimento
fissi, ai quali vanno associati gli oggetti da ricordare: in questo modo l'atto
del ricordare diventa una scrittura mentale, in cui ad ogni immagine
corrisponde un oggetto e quindi un significato.
La recitazione
Infine, il retore deve anche
essere in grado di recitare la propria orazione di fronte a un pubblico. Questo
momento prende il nome latino di actio o pronunciatio (in greco ὐπόκρισις, hypókrisis), e la sua efficacia è legata
al modo in cui chi parla si presenta di fronte all'uditorio. Al retore è dunque
richiesto di essere anche attore, di avere cioè buone capacità di recitazione,
così da coinvolgere il pubblico attraverso la gestualità e il tono
di voce. La sua indubbia importanza è stata tuttavia messa in secondo
piano dai retori e dai teorici, che nei loro trattati preferiscono concentrarsi
su inventio, dispositio ed elocutio, specie in riferimento
alla produzione di testi scritti.
Le figure del discorso
Oltre ad occuparsi della
costruzione del discorso, la retorica si interessa anche allo studio degli
ornamenti, e in particolar modo all'uso delle figure. In origine le figure erano usate esclusivamente
in poesia; il primo a farne uso in prosa, a quanto sappiamo, fu Gorgia:
la retorica gorgiana si caratterizzava infatti per una forte enfasi e una
grande ricercatezza stilistica, e il suo periodare era reso melodico dall'uso
frequente di espedienti ricavati dalla poesia.
Il termine «figura» (σχῆμα, schēma) è usato per la prima volta
da Anassimene di Lampsaco (IV secolo a.C.), ma il primo a studiare le
figure in modo sistematico è Aristotele, il cui allievo Demetrio Falereo in
seguito proporrà la distinzione tra figure
del discorso e figure del
pensiero. Nel corso dei secoli, e soprattutto in epoca barocca, i
teorici si sono impegnati in un'imponente opera di classificazione delle varie figure, senza però giungere ad una tassonomia condivisa.
In particolare, a destare interesse sono le figure
di significazione, altrimenti dette tropi,
la cui collocazione è oggetto di dibattito: talvolta i tropi vengono
semplicemente inseriti insieme alle altre tipologie di figure, mentre altre
volte vengono distinti e ad esse opposti. Di seguito si riporta, a titolo
esemplificativo, la classificazione proposta da Fontanier (1830), citata a
pagina 144 del Manuale di retorica di Bice Mortara Garavelli, nella
quale le figure del discorso sono divise in tropi
e non tropi.
FIGURE DEL DISCORSO
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Tropi
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Figure di
significazione (tropi veri e propri)
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Figure di espressione
(tropi impropriamente detti)
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Non tropi
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Figure di dizione
(metaplasmi)
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Figure di costruzione
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Figure di elocuzione
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Figure di stile
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Figure di pensiero
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Τρόπος (trópos) in greco propriamente significa «direzione», ma
il suo significato originario è stato successivamente abbandonato per quello di
«deviazione», «conversione». Per tropo infatti si intende una variazione (mutatio) del significato di un'espressione
rispetto al suo significato originario; i tropi propri (figure di
significazione) riguardano singole parole, mentre quelli impropri (figure di espressione) riguardano più parole o parti di frasi. Sul
loro numero e la loro classificazione non vi è accordo; quelli fondamentali, a
cui possono essere ricondotti tutti gli altri, sono 3: metafora, metonimia, sineddoche. La metafora (da metapherein,
trasportare) è il più classico dei tropi, e consiste nella sostituzione di una
parola con un'altra il cui senso ha qualche affinità con la parola che
sostituisce. Si ha invece una metonimia quando
si definisce un oggetto con un termine diverso, il cui significato è però
continuo a quello dell'oggetto in questione (per esempio: «cuore» per indicare
i sentimenti, «Foscolo» per indicare le sue opere). La sineddoche infine (talvolta confusa
con la metonimia) consiste nel definire un oggetto con un termine legato ad
esso tramite rapporti di causalità o inclusione (per esempio: «legno» per
indicare un'imbarcazione, «felino» per indicare un gatto). Oltre a queste
tre, Lausberg classifica come tropi anche: antonomasia, enfasi, litote, iperbole, perifrasi, ironia, metalessi.
Le altre figure retoriche, che
Fontanier classifica come «non tropi» e suddivide in cinque classi, vengono più
semplicemente divise dalla retorica antica in due gruppi: figure di parole (in cui rientrano
le figure di dizione, costruzione,
elocuzione e stile) e figure del
pensiero. Le figure di parole
riguardano l'espressione linguistica, e si costruiscono per addizione (ripetizione, climax, paronomasia etc.)
o soppressione di parole (ellissi, asindeto e zeugma), oppure ancora per
mutamento dell'ordine delle parole (anastrofe, iperbato etc.).
Le figure di pensiero invece
interessano le idee o le immagini che appaiono dalla frase, e si ottengono per
addizione o sottrazione (ossimoro, chiasmo etc.),
oppure per variazione (hysteron
proteron, apostrofe etc.).