venerdì 8 maggio 2015
venerdì 24 aprile 2015
23 - L'ORGANIZZAZIONE E LA STRUTTURA DEI TESTI PROFESSIONALI
L’organizzazione
e la struttura dei testi professionali
I
testi professionali devono fornire informazioni e - eventualmente - argomenti
in un ordine razionale: essi presentano, cioè, i dati secondo una logica
riconoscibile e segmentandoli in maniera accurata: capoversi, paragrafi,
capitoli, sezioni, volumi corrispondono ad altrettante unità di contenuto e di
comunicazione, e non sono indotte nel continuum testuale
arbitrariamente.
È
indispensabile, a questo proposito, individuare una logica di presentazione
efficace (spaziale, cronologica, causale…) e fare in modo che il testo venga
suddiviso in porzioni corrispondenti al suo contenuto: vi saranno, dunque,
capitoli, che a loro volta verranno articolati in paragrafi, che a loro volta
saranno ripartiti in capoversi, identificati secondo la medesima logica
comunicativo-contenutistica.
La
titolazione
Un
ruolo importante nella strutturazione di un documento ha la titolazione. Per
quanto non esistano ricette che garantiscano il successo, è relativamente
semplice identificare alcuni criteri di massima che facilitano la creazione di
titoli quantomeno accettabili; essi sono (1) l'informatività; (2) la
specificità; (3) la chiarezza.
Il
titolo di un testo professionale deve essere informativo, nel senso che deve
fornire al lettore indicazioni in merito al suo contenuto, e cioè all'argomento
oggetto di trattazione; deve essere preciso, cioè sufficiente a fargli
comprendere quale aspetto dell'argomento vi venga preso in considerazione ed a
quale fine.
La
preparazione dell'abstract
L'abstract (o
riassunto di presentazione) è un complemento sempre più diffuso all'interno dei
documenti professionali. Esso è in genere rappresentato da un testo di poche
cartelle in cui si presentano, in estrema sintesi, la natura, gli obiettivi, i
risultati e le prospettive di sviluppo della ricerca intrapresa; lo si premette
ai testi di una certa estensione (dalle 15 pagine in su) in modo che i lettori
cui essi sono destinati possano farsi un'idea del loro contenuto e decidano se
leggerli ed, eventualmente, quali sezioni leggerne.
Si
distinguono in genere abstract descrittivi
(o strutturali) ed informativi (o sostanziali, o contenutistici: la
nomenclatura usata è piuttosto variabile). I primi si limitano a presentare un
quadro dell'argomento o degli argomenti affrontati nel testo; i secondi
forniscono invece informazioni precise anche sul contenuto del testo, e sono
per questo in genere più lunghi e complessi - ma anche più utili ed
informativamente più ricchi.
Si
tenga presente che l'abstract è un documento a se stante e che, in quanto tale,
deve essere dotato di indipendenza e di compiutezza: non deve prevedere la
lettura di alcuna parte del documento che riassume, neppure del glossario o
delle tavole. Termini specialistici o utilizzati in accezioni particolari
dovranno, quindi, essere spiegati contestualmente o - se possibile - evitati;
ai dati di tabelle o grafi si potrà fare cenno solo cursoriamente e per quanto
necessario alla comprensione del contenuto generale del testo: i dettagli esplicativi
saranno invece riservati al documento vero e proprio. Se è strettamente
necessario visualizzare tabelle o altri complementi grafici, li si dovrà
ripetere.
La preparazione del sommario
In
un testo professionale il sommario costituisce un valido supplemento all'abstract,
perché raggruppa e presenta in formato di lista i titoli di tutti i capitoli ed
i sottocapitoli del documento. In linea di massima si suggerisce di elencare -
utilizzando caratteri che permettano di distinguere a prima vista la gerarchia
dei componenti - tutti i titoli sino al terzo livello, omettendo, se sono
presenti, sottopartizioni di livelli inferiori. Alcuni scriventi, tuttavia,
preferiscono riportare tutti i titoli, anche a rischio di generare liste molto
lunghe e complesse: è una scelta la cui opportunità deve essere valutata di
volta in volta, in base a criteri di funzionalità
La
scrittura della premessa
La Premessa costituisce
un elemento del paratesto, e non del testo vero e proprio: ad essa, quindi - se
presente - si dovrebbero affidare solo informazioni di contorno (per esempio,
indicazioni sulle ragioni che hanno spinto ad intraprendere lo studio o
chiarimenti in merito alla sua collocazione all'interno di progetti più ampi);
le indicazioni più strettamente pertinenti al testo (quelle relative alle sue
finalità, ai metodi, alla struttura…), invece, dovranno invece essere spostate
nell'Introduzione, che ne costituisce invece la prima parte.
La
stesura dell'Introduzione
Al
contrario della Premessa,
l'Introduzione pone
il lettore entro il
documento. In generale, l'introduzione di un documento professionale
risponde a quattro fini fondamentali:
indicare
la natura del testo;
chiarire
la sua funzione;
precisare
quali siano le conoscenze presupposte ai fini della sua comprensione ed
eventualmente - valutate le caratteristiche del proprio uditorio - fornire
informazioni di supporto;
evidenziare
quale sia la sua struttura.
In
particolare, per quanto attiene al punto a., si dovrebbero chiarire,
nell'Introduzione, quali siano l'estensione ed i limiti del documento: quali,
cioè, gli argomenti trattati, quale l'ottica in cui essi sono presi in
considerazione, quale la prospettiva adottata nella trattazione (si potranno
anche indicare, naturalmente, quali siano gli argomenti che non si sono presi
in considerazione, le variabili che non si sono tenute in conto, i quadri
problematici che si sono ignorati).
Per quanto concerne il punto b., si dovrebbero precisare nel segmento introduttivo del documento non solo le finalità per cui il testo è stato realizzato, ma anche le ragioni che fanno di esso un contributo utile alla comunità degli intellettuali; se possibile - soprattutto in ambito tecnico - è buona norma mettere in evidenza anche potenziali vantaggi pratici che derivino dall'uso dei dati raccolti nello scritto o dall'implementazione dei suggerimenti che esso fornisce.
Per quanto concerne il punto b., si dovrebbero precisare nel segmento introduttivo del documento non solo le finalità per cui il testo è stato realizzato, ma anche le ragioni che fanno di esso un contributo utile alla comunità degli intellettuali; se possibile - soprattutto in ambito tecnico - è buona norma mettere in evidenza anche potenziali vantaggi pratici che derivino dall'uso dei dati raccolti nello scritto o dall'implementazione dei suggerimenti che esso fornisce.
Quanto
poi il punto c., sarebbe utile fornire, in una sezione dell'Introduzione, le
notizie di fondo che appaiono funzionali a rendere più facile e completa, al
proprio uditorio, la comprensione del testo: è ovvio che la quantità di
informazioni deve essere tanto più ampia quanto più settoriale è il testo e
quanto meno specialistico è il suo destinatario primario.
In
merito, infine, al punto .d, ci si dovrebbe preoccupare di chiarire sempre,
secondo modalità variabili, quali siano l'articolazione e la struttura del
documento, costruendone una sorta di "mappa" che guidi il lettore
nella sua interpretazione.
L'articolazione
in sezioni
Dove
si dovrebbero operare i tagli in un testo scientifico? Non è facile dare una
risposta che non rischi di essere generica: un suggerimento sempre valido è
quello di considerare il brano che si vorrebbe trasformare in una unità formale
(sezione, capitolo, paragrafo, capoverso) verificando che esso coincida
effettivamente con un'unità di informazione, chiaramente distinta da quelle che
lo precedono e lo seguono, per quanto ad esse collegato.
Si
verifichi anche che tale unità, se più ampia di un capoverso, possa essere
titolata: il fatto di poter dare un titolo informativo ad una porzione di testo
indica che essa si diffonde su un argomento preciso; il fatto contrario,
invece, suggerisce, di norma, che il segmento testuale non è sufficientemente
indipendente e che deve essere, per questo, accorpato a quello che lo precede o
a quello che lo segue.
Nel
caso di un capoverso, l'applicazione di un titolo può sembrare pretestuosa: può
essere allora più utile tentare di identificarne la frase guida o topic
sentence, che dovrebbe esprimere il nucleo informativo del capoverso: se
essa è presente ed è facilmente individuabile, quello che si sta analizzando è
un paragrafo ben formato, altrimenti dovrà essere rivisto e completato.
La
scrittura delle conclusioni
La
conclusione di un testo tecnico-scientifico e professionale contiene, di norma, (a) la
presentazione delle conclusioni cui ha condotto la propria indagine; (b) una
loro analisi e(c), se ciò ha un senso, la proposta di un loro sviluppo
applicativo o teoretico.
Le
appendici documentarie ed iconografiche e gli allegati
L'allestimento
di una o più appendici documentarie risponde, in generale a differenti
esigenze: quella di offrire informazioni dettagliate, che non possono essere
incluse nel corpo del testo perché troppo ampie o perché, comunque, tali da interrompere
il flusso testuale; quella di fornire informazioni utili soprattutto
all'uditorio secondario; quella di arricchire la propria documentazione con
materiale interessante ma di interesse collaterale e, quindi, non collocabile
entro il nucleo testuale principale.
A
fini analoghi rispondono le appendici iconografiche; si aggiunga che, in alcuni
casi, la scelta di collocare in appendice il materiale iconografico è reso
necessario dalla gestione del documento: se, infatti, la collocazione di
figure, diagrammi e grafici in prossimità del testo che vi fa riferimento è
senz'altro la soluzione comunicativamente più efficace, quando l'apparato sia
particolarmente esteso o quando le illustrazioni siano molto voluminose, essa
non è praticabile. Non resta, dunque, in questi casi, che inserire le immagini
indispensabili nel corpo del testo e rinviare al resto della documentazione in
appendice.
Si
ricordi che le appendici devono essere numerate in sequenza (Appendice 1,
Appendice 2 ecc. oppure Appendice A, Appendice B ecc.) e portare un titolo
esplicativo (Appendice1: testi e documenti su significato e referenza nella
filosofia del linguaggio; Appendice 2: diagramma di flusso per l'allestimento
di un sito Web, dalla progettazione alla messa in linea; Appendice A: testo del
protocollo di intesa per la realizzazione del progetto Alfa-gammatronics).
venerdì 17 aprile 2015
22 - Un esempio di scrittura paratattica: A. Campanile, La quercia del Tasso
Quell'antico tronco d'albero che
si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco,
morto,
corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è
stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama
la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi
sotto, quand'essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano
così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno
tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da
essa, c'era, ai tempi del grande e infelice poeta, un'altra quercia fra le cui
radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti
tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava
della quercia del Tasso con la "t" maiuscola e della quercia del
tasso con la "t" minuscola. In verità c'era anche un tasso nella
quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall'altro, lo
chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse
al poeta, perciò lo chiamavano "il tasso del Tasso"; e l'albero era
detto "la quercia del tasso del Tasso" da alcuni, e "la quercia
del Tasso del tasso" da altri.
Siccome c'era un altro Tasso
(Bernardo, padre di Torquato, poeta anch'egli), il quale andava a mettersi
sotto un olmo, il popolino diceva: "È il Tasso dell'olmo o il Tasso della
quercia?".
Così poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?".
"Della quercia del Tasso."
Così poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?".
"Della quercia del Tasso."
E dell'animaletto di cui sopra,
ch'era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: "il tasso
del Tasso della quercia del Tasso".
Poi c'era la guercia del Tasso:
una poverina con un occhio storto, che s'era dedicata al poeta e perciò era
detta "la guercia del Tasso della quercia", per distinguerla da
un'altra guercia che s'era dedicata al Tasso dell'olmo (perché c'era un grande
antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una
quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: "la
quercia della guercia del Tasso"; mentre quella del Tasso era detta:
"la quercia del Tasso della guercia": qualche volta si vide anche la
guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche
nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
Viveva.
E lo chiamarono: "il tasso
della quercia della guercia del Tasso", mentre l'albero era detto:
"la quercia del tasso della guercia del Tasso" e lei: "la
guercia del Tasso della quercia del tasso".
Successivamente Torquato cambiò
albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi),
che per un certo tempo fu detto: "il tasso del Tasso".
Anche il piccolo quadrupede del
genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero
sotto il nuovo albero, l'animaletto venne indicato come: "il tasso del
tasso del Tasso".
Quanto a Bernardo, non potendo
trasferirsi all'ombra d'un tasso perché non ce n'erano a portata di mano, si
spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu
chiamato da allora: "il tasso barbasso del Tasso"; e Bernardo fu
chiamato: "il Tasso del tasso barbasso", per distinguerlo dal Tasso
del tasso.
Quanto al piccolo tasso di
Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell'animaletto fu indicato
da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal
tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso,
per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i
due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma
fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso
del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.
20 - Un esempio di scrittura ipotattica: E. Ionesco, La cantatrice calva, Il raffreddore
IL RAFFREDDORE
Mio
cognato, dal lato paterno aveva un cugino germano, lo zio materno del quale
aveva un suocero il cui nonno paterno aveva sposato in seconde nozze una
giovane indigena, il cui fratello, nei suoi viaggi, aveva incontrato una
ragazza della quale si era innamorato e dalla quale aveva avuto un figlio che
sposò poi un’intrepida farmacista, la quale altro non era che la nipote di uno
sconosciuto quartiermastro della Marina Britannica, il di cui padre adottivo
aveva una zia in grado di parlare correttamente lo spagnolo e che era, forse,
una delle nipoti di un ingegnere morto in giovane età, nipote a sua volta di un
proprietario di vigne dalle quali si ricavava un vino assai mediocre, ma che
aveva un cugino, casalingo e sottotenente, il cui figlio aveva sposato una
graziosissima signora, un po’ divorziata, il primo marito della quale era
figlio di un vero patriota che aveva saputo educare una delle proprie figlie
nell’ambizione di fare fortuna, la quale era riuscita a sposare un fattorino
che aveva conosciuto Rothschild e il cui fratello, dopo aver cambiato parecchi
mestieri, si sposò ed ebbe una figlia, il cui bisnonno, gracilino, portava gli
occhiali che gli aveva regalati un suo cugino, cognato di un portoghese, figlio
naturale di un mugnaio, non troppo povero, il fratello di latte del quale aveva
preso in moglie la figlia di un medico di campagna, a sua volta fratello di
latte di un lattaio, a sua volta figlio naturale di un altro medico di
campagna, sposato tre volte di seguito, e di cui la terza moglie era la figlia
della migliore levatrice della regione e che, vedova di buonora, come mia
moglie, si era sposata con un vetraio pieno di zelo, il quale, alla figlia di
un capostazione, aveva fatto un figlio destinato a fare la sua strada, ferrata,
come la mazza, e aveva sposato una venditrice di spazzature, il cui padre aveva
un fratello, sindaco di una piccola città, che aveva preso in moglie una
maestra bionda, il cugino della quale, pescatore con la rete, ferroviaria,
aveva preso in moglie un’altra maestra bionda, chiamata Maria, il cui fratello
aveva sposato un’altra Maria, anche lei maestra bionda, il cui padre era stato
allevato nel Canada da una vecchia, che era nipote di un parroco, la nonna del
quale, talvolta, d’inverno, come capita a tutti, si buscava un raffreddore.
da LA CANTATRICE CALVA
di E. Ionesco
21 - LA PARATASSI
paratassi
1. Definizione e
delimitazione
La paratassi è una connessione ordinata di frasi in
un’entità superiore, in cui le frasi interessate hanno diverso valore
informativo e sono collegate tra loro da nessi semantici. Insieme alla
subordinazione e alla coordinazione, la paratassi è una delle principali forme
di collegamento tra elementi linguistici.
Il termine paratassi (dalla preposizione gr. pará «presso, vicino» e il nome táxis «disposizione,
ordine»), formato sul modello di sintassi,
fu coniato nel 1826 dal grecista F.W. Thiersch insieme col termine
complementare ipotassi (dalla preposizione gr. ypó «sotto»). Il significato
originario allude all’‘accostamento’ di unità linguistiche di livello
equivalente, come invece è proprio delle relazioni ipotattiche.
Va segnalato che la coppia
terminologica paratassi-ipotassi non è entrata nella tradizione
grammaticale italiana. Per es., non se ne trova menzione nella Sintassi italiana di Fornaciari (1881: 416-429), che
prevedeva solo il coordinamento e ilsubordinamento come possibili tipi di relazione tra
le frasi. La coppia è per lo più impiegata come sinonimo di coordinazione e subordinazione, a base latina
(Serianni 1988: 447-50; Devoto & Oli 1971: 1621; Beccaria 20042:
418), e viene usata soprattutto in relazione allo studio delle lingue
classiche.
Tra la fine del XX secolo e
l’inizio del XXI la paratassi è stata al centro di un esteso dibattito (Avanzi,
Beguelin & Corminboeuf 2010), innescato da nuove prospettive teoriche, come
gli studi di grammatica testuale, di analisi del discorso e più in generale
della linguistica dei corpora. Molti fenomeni, anche molto diversi
tra di loro, sono stati quindi considerati paratattici; tra questi, la
giustapposizione, in particolare le apposizioni, i complementi predicativi, gli
anacoluti e perfino le strutture correlative.
L’esistenza di relazioni
paratattiche è stata discussa in particolare tra le questioni generali
concernenti l’origine delle lingue indoeuropee. È stata ipotizzata
un’anteriorità diacronica delle costruzioni paratattiche e correlative rispetto
a quelle subordinative e ipotattiche, che sarebbero da esse derivate. È stato
osservato però che ogni lingua, in particolare se giunta alla modalità scritta,
possiede già nei suoi stadi antichi sia costruzioni ipotattiche che
paratattiche.
2. Coordinazione, subordinazione
e paratassi
Solitamente identificata con la
coordinazione, la paratassi ne va invece accuratamente distinta; un’altra
distinzione va fatta rispetto alla subordinazione.
2.1 Coordinazione e paratassi
Una struttura coordinata ha
essenzialmente i caratteri seguenti:
(a) all’interno di una frase si
moltiplicano, nel caso di enumerazioni, o si duplicano costituenti di uguale
rango;
(b) si instaurano relazioni
copulative, avversative o alternative, mediante congiunzioni (sindesi) o senza (asindesi);
la coordinazione, quindi, può interessare costituenti di qualsiasi livello:
parole, sintagmi, frasi. Questi fenomeni si osservano negli esempi seguenti:
(1) la ragazza era bella e
stupida → la ragazza era bella, superficiale, (e) stupida
(2) Mario e Carlo studiano
medicina → Mario, Carlo, (e) Luigi studiano medicina
(3) Mario ha eseguito il lavoro
con competenza e con passione → Mario ha eseguito il lavoro con competenza, con
passione, (e) con fatica
(4) Mario frequenta il
Conservatorio e si sta specializzando in violino → Mario frequenta il
Conservatorio, si sta specializzando in violino, (e) studia composizione
La coordinazione richiede che i
costituenti coordinati abbiano la stessa funzione e facciano parte della stessa
configurazione sintattica. Da un punto di vista semantico, essi partecipano
alla composizione del significato della frase e al conseguimento del suo valore
di verità, avendo tutti la stessa modalità (Bally 1971: 65-78). Inoltre, l’ordine
degli elementi di una coordinazione non dovrebbe essere rilevante; esso non è
un carattere necessario per il realizzarsi di una relazione semantica
(condizionale, concessiva, ecc.), come invece accade in una relazione
paratattica.
Dal canto suo, una relazione
paratattica non contiene costituenti di qualsiasi livello, ma solo frasi, o
comunque (come si vedrà sotto a proposito del parlato) entità predicative (Le
Goffic 1993: 501-502; López García 1999: 3513; Quirk et al. 199915:
918-919). Le frasi in relazione paratattica non sono la duplicazione di un
costituente in una stessa configurazione sintattica, ma ciascuna è una
configurazione sintattica autonoma.
Da un punto di vista semantico,
inoltre, ciascuna frase in relazione paratattica ha una propria modalità.
Questo fatto può essere illustrato da un insieme di caratteri, che si
presentano in mescolanze varie. Tra i principali, le frasi in relazione di
paratassi possono:
(a) avere diverso soggetto;
(b) appartenere a tipi diversi
(frase dichiarativa, interrogativa, imperativa, ottativa, esclamativa);
(c) avere predicati dalla
semantica diversa (verbo di stato, di azione, di percezione, di parola, di
giudizio);
(d) avere diversa qualità (frase
nominale, verbale, positiva, negativa, di citazione, di discorso
riportato);
(e) variare per caratteristiche
di diatesi e aspetto;
(f) avere diverse coordinate
deittiche[1].
L’ordine degli elementi, poi, è
una condizione necessaria al compimento dell’effetto semantico complessivo.
Inoltre, nel parlato le entità linguistiche paratattiche devono essere scandite
da unità prosodiche diverse.
In conclusione: mentre le unità
coordinate, o in enumerazione, possono essere di qualsiasi livello linguistico,
ma devono essere omogenee per funzione sintattica e caratteristiche modali e il
loro ordine non è un tratto necessario, le unità in paratassi possono essere
solo frasi, devono essere distinte per modalità e devono essere ‘accostate’
secondo un ordine perché possa aversi un certo effetto semantico. Quindi il
loro accostamento non produce tanto un’aggiunta d’informazione quanto una
connessione semantica di livello testuale.
2.2 Paratassi e
subordinazione
Per taluni aspetti la connessione
coordinativa e paratattica ha delle affinità con la subordinazione, e la scelta
dell’una o dell’altra risalirebbe all’intenzione del parlante di potenziare o
indebolire la tensione emotiva, riducendosi ad una dimensione stilistica.
Infatti, la maggior parte delle relazioni di subordinazione può essere tradotta
in coordinazione, e viceversa, facendo sì che esse siano interscambiabili e
quindi differenziate in modo instabile.Già Fornaciari (1881: 426), uno dei
primi espliciti sostenitori dell’ipotesi dell’equivalenza, opera un confronto
tra periodi con relazioni di subordinazione e i loro equivalenti ‘trasformati’
con relazioni di coordinazione:
(5) poiché hai disprezzato i miei
consigli, io ti abbandono → hai disprezzato i miei consigli e io ti abbandono
(6) la virtù è così bella, che
l’amano perfino i malvagi ~ anche i malvagi amano la virtù: tanto essa è bella
Si noti come in (5) la seconda
frase ‘trasformata’ sia connessa alla prima da e, una congiunzione
coordinante ma anche rafforzativa. In
(6), poi, l’autore ha sentito la necessità di invertire l’ordine delle frasi e
di connetterle con un segno interpuntivo peculiare (i due punti), al fine di
realizzare un effetto esplicativo. In realtà proprio le seconde frasi delle
coppie (5) e (6), presentate da Fornaciari come casi di coordinazione,
potrebbero essere considerate casi di paratassi, i quali in effetti meglio
convogliano l’impatto emotivo delle versioni con la struttura di
subordinazione.
3. Proprietà della
paratassi
È quindi giustificato chiedersi
se le relazioni paratattiche siano davvero diverse da quelle di coordinazione e
subordinazione e quali caratteristiche abbiano. Può aiutare nel compito l’esame
di alcuni esempi del latino, in cui la paratassi si manifesta in varie forme
(esempi tratti da Orlandini & Poccetti 2010):
(7) filiam quis habet, pecunia est opus (Cicerone, Rhet. 44)
«figlia chi ha, soldi c’è
bisogno» [= «qualcuno (chi) ha una figlia, (per lui) i soldi sono necessari»]
(8) ostende bellum, pacem habebis «mostra la guerra, la pace avrai» [=
«fa’ mostra di guerra, avrai la pace»]
(9) vix ea fatus eram, tremere omnia visa repente (Virgilio, En. III, 90)
«appena quelle cose detto avevo,
tremare tutto fu visto d’un tratto» [= «avevo appena detto ciò, (che)
all’improvviso tutto sembra tremare»]
(10) video meliora proboque, deteriora sequor (Ovidio, Met. VII, 20)
«vedo il meglio e approvo, il
peggio seguo» [= «vedo le cose migliori e le approvo, seguo le peggiori»]
(11) fremant omnes licet, dicam quod sentio (Cicerone, De Orat. I,195)
«fremano tutti è lecito, dirò
quel che penso» [= «che tutti protestino è lecito, (comunque è lecito anche)
che io dica ciò che penso»]
(12) ne sit sane summum malum dolor, malum certe est (Cicerone, Tusc. II, 14)
«non sia certo sommo male il
dolore, male certo è» [= «che non sia sicuramente il dolore il male sommo, (ma)
certamente è male»]
In tutti questi esempi si ha la
sequenza di due frasi, che si trovano sullo stesso piano sintattico e sono
accostate in uno stesso periodo senza congiunzioni (diversamente dai casi di
coordinazione sindetica e di subordinazione esplicita). È dal punto di vista
dell’organizzazione dell’informazione che le due unità non hanno ugual valore;
benché ciascuna abbia senso a sé, solo la presenza della seconda frase produce
l’effetto complessivo dell’intero periodo. L’accostamento delle due frasi
infatti può dare espressione a significati diversi: in (7) e (8) la relazione è
condizionale ipotetica (periodo ipotetico), (9) mostra una
relazione di contemporaneità (temporalità, espressione della),
in (10) è sviluppato un valore contrastivo, in (11) e (12) tramite
l’espressione è lecito e l’avverbio certamente viene evocata una relazione concessiva.Il
valore semantico della sequenza paratattica si definisce nel contesto e non è
predeterminato linguisticamente.
In connessione a ciò si può
notare che la sequenza delle frasi ha però ordine fisso: esse non possono
essere invertite, pena il mancato effetto semantico. Da un punto di vista
informativo, quindi, la prima frase ha funzione di tema (o di sfondo; tematica, struttura), la seconda costituisce il centro
dell’informazione dato che indica i possibili nessi semantici: condizionali,
temporali, contrastivi, concessivi. Va notato che se gli esempi fossero di
lingua parlata, ciascuna frase dovrebbe avere un’apposita unità prosodica, la
prima separata dalla seconda da ciò che tradizionalmente si indica come pausa virtuale.
Già dalle traduzioni degli esempi
latini è facile dedurre che anche in italiano sono possibili, e anche
frequenti, costrutti simili, e quindi anche per l’italiano appare congruo
ipotizzare che la paratassi vada distinta dalla coordinazione. Gli esempi da
(13) a (17) potrebbero valere come modelli paratattici produttivi per
l’italiano:
(13) studia, sarai promosso
(14) si lamenta, tutti si mettono
a disposizione
(15) parto, (che) ti piaccia o no
(16) ha un bel provarci, non ci riesce
(17) fosse pure la mia ultima
occasione, tenterò
Questi esempi condividono tutte
le caratteristiche già esposte per il latino, riproducendo relazioni
condizionali (13), contrastive (14) e concessive (15-17).
4. La paratassi nell’uso parlato
Tutti gli esempi fattibili di
come paratassi nel parlato potrebbero essere connessi al loro interno da
un’espressione avverbiale (e, ma, ed ecco, perciò,quindi).
Parallelamente, però, qualsiasi connettivo potrebbe anche essere soppresso,
senza con ciò causare la perdita della relazione paratattica. Dunque, se i
connettivi sono ammissibili e appropriati in una relazione paratattica, essi
sono però opzionali, perché servono solo a esplicitare o rafforzare il nesso
semantico che in ogni caso la connessione ordinata delle due unità
realizzerebbe.
Un’altra caratteristica del
parlato italiano è che uno o entrambi gli enunciati della relazione paratattica
possono non essere né frasi né sintagmi verbali, ma sintagmi nominali o
aggettivali, come in (20), (23), (24), (26). Ciò nonostante essi hanno piena
funzione predicativa e svolgono in maniera appropriata il ruolo di una delle
entità in relazione paratattica. Questa possibilità è tipica del parlato, nel
quale una qualsiasi espressione, purché dotata di intonazione appropriata, può
svolgere un atto linguistico e quindi essere pienamente predicativa.
Il ricorso a frasi nominali, del
resto, è comune in massime e proverbi, condivisi da tutte le lingue romanze e
germaniche. Spesso essi sono fondati proprio sulla connessione ordinata, ovvero
sulla paratassi, di due frasi nominali, di cui la prima serve da premessa o
sfondo a una seconda conclusiva, come si vede dai seguenti esempi inglesi:
(27) no work, no money «niente lavoro, niente soldi»
(28) out of sight, out of mind «lontano dagli occhi, lontano dal
cuore»
Le due frasi nominali, in
relazione paratattica, possono naturalmente essere legate da un connettivo come quindi o perciò.
Questa caratteristica consente di fare un confronto con le frasi nominali
semplici, spesso annoverate tra i casi di paratassi. Vediamo un proverbio (29)
e una frase nominale di uso quotidiano (30):
(29) dalla padella nella brace
(30) giovedì gnocchi
Si deve notare che nessun
connettivo (e, ma, perciò, quindi) potrebbe essere
inserito in (29) e (30). Ciascuna delle due parti della frase nominale non è a
sua volta una frase nominale e non è di per sé interpretabile, sicché tra le
due parti non si può sviluppare nessuno degli effetti semantici propri della
paratassi. La loro combinazione realizza semplicemente una predicazione
nominale.
Gli esempi fin qui notati – per
il latino, l’italiano parlato e l’inglese – possono essere considerati come un
repertorio abbastanza ampio dei modelli paratattici, condiviso dalla gran parte
delle lingue romanze e di quelle germaniche (Jespersen 1924; Matthews 1981; Le
Goffic 1993; Quirk et al.
199915, López García 1999).
5. La paratassi nell’uso
scritto
I fenomeni paratattici fin qui
presentati ricorrono anche nella lingua scritta e
sono attestati in maniera sistematica nelle recenti opere letterarie italiane,
anche se identificarli può esser meno semplice che nel parlato. Riportiamo vari
esempi tratti da autori della seconda metà del XX secolo e degli inizi del XXI:
(31) È vero che lavora mio padre;
e vorreste non godesse qualche lira delle venti facendo il fiasco all’osteria?
(Vasco Pratolini, Il
Quartiere, Milano 1968, p. 46)
(32) Entrò come un’ombra, e seppi
di averlo davanti al tavolino prima ancora di levare gli occhi (Cesare Pavese, La spiaggia, Torino 1968, p.
138)
(33) Mai le donne l’avrebbero
salvata: e le mancava l’uomo (Italo Calvino,L’avventura di un bagnante,
Torino 1970, p. 1080)
(34) Tutto il resto […] ora tace,
questi in fila e in piedi, […] quelli finalmente sciolti dalle corazze, […]
eccoli già lì che russano (Calvino, Il
cavaliere inesistente, Torino 1973, p. 14)
(35) Quelli sposati non si
occupavano più di nulla: lo vedeva col cognato (Carlo Cassola, Ferrovia locale, Torino 1982,
p. 7)
(36) il prete e una coppia di
professori a riposo […] sono morti e altre tre persone sono rimaste ferite, e
avrebbe potuto essere peggio se non fosse stato sabato pomeriggio con anche il
sole (Andrea De Carlo, Uto,
Milano 1995, p. 10)
(37) Non so niente, che cosa è la
rottura delle acque? (Giuseppe Pontiggia, Nati
due volte, Milano 2000, p. 16)
(38) L’unica pietà l’ho ricevuta
dagli infedeli, Dio li ricompensi evitando di dannarli come meriterebbero
(Umberto Eco, Baudolino,
Milano 2000, p. 493)
(39) Chiedeva, infatti, il signor
Roccella, del questore: una follia, specialmente a quell’ora e in quella
particolare serata (Leonardo Sciascia, Una
storia semplice, Milano 2001, p. 12)
(40) Naturalmente non accadde
nulla, Dio non si scomoda per un uomo ridicolo (Margaret Mazzantini, Non ti muovere, Milano 2001,
p. 217)
(41) Sono stanco ma non ho
finito, lasciami riposare un po’ ma non te ne andare, resta, apri bene le
orecchie, perché è importante (Antonio Tabucchi, Tristano muore, Milano 2004,
p. 90)
La sequenza delle unità
predicative, indipendentemente dal fatto che alcune non siano verbali (come in
34 e 39) e dal loro numero (come in 34, 36 e 41), ha ordine fisso, pena il non
raggiungimento di un significato o effetto complessivo di varia natura
semantica, che può essere apprezzato solo nell’intero periodo. Ed è proprio per
via della loro indipendenza e del loro ordine che le frasi paratattiche possono
sviluppare forme peculiari di testo, a volte non facilmente definibili, sottili
e vaghe, ma certo stilisticamente significative.
Possiamo notare che anche negli
esempi da (31) a (41) si ha una connessione entro uno stesso periodo,
graficamente identificato da segni interpuntivi forti, di due o più unità
predicative o frasi chiaramente differenziate per modalità. Le unità si trovano
sullo stesso piano sintattico, ciascuna è identificata da segni interpuntivi
deboli (virgola, punto e virgola, due punti), accompagnati o no da connettivi
(come in 31, 32, 33, 36, 41). La diversificazione modale delle unità frasali è
ottenuta sfruttando l’insieme di quei tratti che, come notato, possono
concorrere all’assegnazione del valore modale.
da Enciclopedia
dell'Italiano (2011)
http://www.treccani.it/enciclopedia/paratassi_(Enciclopedia_dell'Italiano)/
[1] Deittico: di elemento, espressione che si riferisce alle
coordinate spazio-temporali o ai protagonisti di un enunciato (p.e. là, ora, il mese scorso, io, tuo)
19 - L'IPOTASSI
IPOTASSI
L’ipotassi (o subordinazione;
dal greco hypotàxis ‘dipendenza’) è il rapporto sintattico
che si stabilisce tra due proposizioni collegate nel testo in maniera
gerarchica, in modo che l’una – chiamata proposizione subordinata (o anche secondaria) –
risulti dipendente logicamente e grammaticalmente dall’altra, che può essere
autonoma (ed è chiamata allora proposizione principale) o a sua
volta subordinata (ed è chiamata allora reggente o sovraordinata).
Questo rapporto di dipendenza può
essere introdotto in vari modi.
• Tramite congiunzioni
subordinative e preposizioni di vario genere
Quando arriverà, sarà tutto diverso
Arrivò per risolvere la situazione
• Con pronomi e avverbi
subordinanti di vario tipo (che svolgono funzione di congiunzione)
Mi chiedo cosa resterà
Non so chi sia
Una proposizione subordinata a
sua volta può diventare reggente e introdurre un’altra proposizione subordinata
(di III grado) e così via, creando un collegamento logico e sintattico che dà
coesione al testo
Arrivò a casa per rimproverare
Luigi, che si era ammalato quando era uscito per andare a comprare il giornale
Arrivò a casa = proposizione
principale, reggente della proposizione secondaria di I grado
per rimproverare Luigi =
proposizione secondaria di I grado, reggente della proposizione secondaria di
II grado
che si era ammalato =
proposizione secondaria di II grado, reggente della proposizione secondaria di
III grado
quando era uscito = proposizione
secondaria di III grado, reggente della proposizione secondaria di IV grado
per andare a comprare il giornale
= proposizione secondaria di IV grado
Inoltre, i modi e i tempi del
verbo della proposizione dipendente sono regolati in base a quelli della
reggente, secondo le leggi della cosiddetta consecutio temporum.
In alcuni casi lo stesso rapporto
logico reso con l’ipotassi può essere espresso con la paratassi (o coordinazione)
Poiché ha lavorato molto, è
stanco (subordinata causale e
proposizione principale)
È stanco, infatti ha lavorato
molto (principale e coordinata
esplicativa)
Ha lavorato molto, ed è stanco (principale e coordinata copulativa).
venerdì 10 aprile 2015
20 - LA RETORICA (parte seconda)
I
luoghi (topoi)
Con il termine «luogo» (in
greco τόπος, tópos, in
latino locus) in retorica si
intende un argomento ricorrente, organizzato in forme convenzionali e stereotipate a
uso e consumo del retore. Il topos,
nella sua convenzionalità, è infatti immediatamente riconoscibile da parte
dell'uditore, e permette al retore di disporre di un elemento di sicuro effetto
da utilizzare nelle orazioni. La teoria dei topoi, detta appunto topica,
si deve quasi integralmente ad Aristotele, che ne trattò nei Topici e poi nel Libro II della Retorica come
forma di argomentazione dialettica. Generalmente, se ne distinguono due
tipi: comuni e propri.
I luoghi comuni (τόποι κοινόι) partono da punti di vista generali,
opinioni accettate dalla maggior parte degli individui, che appunto in quanto
generali valgono per quasi tutti gli argomenti. Aristotele ne classifica 3 tipi: possibile/impossibile, reale/non
reale, più/meno.
I luoghi propri (εἶδος), invece, sono specifici e variano a seconda
del pubblico, della disciplina e del tipo di discorso. Si tratta di
proposizioni particolari, legati alla pratica di ciascuna determinata
disciplina, la cui validità viene però riconosciuta da tutti.
La disposizione: la struttura
del discorso
La seconda parte del sistema
della retorica riguarda la dispositio (in greco τάξις, taxis, oppure οἰκονομία, oikonomía), cioè l'organizzazione del
discorso: le parti di cui si compone il discorso, l'ordine in cui presentare i
contenuti e le idee, l'ordine delle parole per presentare gli argomenti.
Con particolare attenzione alla
retorica giudiziaria, la retorica classica ha formulato uno schema per
strutturare i discorsi, il quale può essere seguito rigorosamente o meno.
L'orazione prevede quattro parti, nell'ordine:
exordium,
esordio, tentativo di accattivarsi l'uditorio delectando e movendo con
ornamenti;
narratio,
esposizione, esposizione dei fatti, per docere l'uditorio, in ordine cronologico
o con una introduzione ad effetto in
medias res;
argumentatio,
argomentazione, dimostrazione delle prove a sostegno della
tesi (confirmatio) e confutazione
degli argomenti avversari (refutatio);
peroratio,
epilogo, la conclusione del discorso, muovendo al massimo gli
affetti dell'uditorio e sviluppando pathos.
Esordio
L'esordio (προoίμιον, exordium)
è la parte che apre l'orazione, in cui viene esposto, sempre che non sia già
noto, l'oggetto di cui ci si intende occupare (πρότασις). Il suo scopo è quello
di accattivarsi i favori del pubblico (captatio
benevolentiae) e annunciare le ripartizioni che si stanno per adottare
nello svolgimento dell'orazione (partitio). Se
la situazione lo permette, è possibile chiedere esplicitamente all'uditorio di
essere benevoli, altrimenti si deve ricorrere all'insinuatio, entrare nell'animo degli ascoltatori per via
sotterranea, evitando di parlare dei propri punti deboli per mostrare invece
quelli degli avversari. Inoltre, è importante rendere subito nota la struttura
dell'orazione e l'ordine degli argomenti, così da rendere il pubblico partecipe
dei termini del discorso ed evitare che sembri troppo lungo.
Per accattivare e rendere più
partecipi le giurie - nel caso dell'orazione giudiziaria greca, in particolare
- all'interno del προoίμιον venivano inserite talvolta espressioni o periodi
che sottolineavano la presa di coscienza da parte dell'oratore della difficoltà
dell'argomento trattato o della sentenza da emettere (ad es. "mi rendo
conto di quanto sia difficile per voi, o Ateniesi, giudicare...").
Si tenga presente che, nel caso
si intenda trattare l'argomento in
medias res, l'esordio e l'epilogo possono essere evitati.
Esposizione
L'esposizione (διήγησις o anche ῥῆσις, narratio) è il resoconto succinto, chiaro e verisimile dei fatti
che vengono affrontati, così che sia funzionale all'argomentazione. Due sono i
generi di disposizione dei contenuti: l'ordo
naturalis, che segue lo svolgimento logico e cronologico degli
eventi, e l'ordo artificialis,
orientato più alla resa estetica tramite l'uso di figure retoriche, digressioni e altri procedimenti stilistici.
Quest'ultimo è anche più intellettuale, poiché rompe la linearità del tempo per
assecondare le esigenze della situazione e dell'argomento.
Nell'esposizione dei fatti è
inoltre necessario perseguire quello che è il «giusto mezzo», non essere cioè
troppo prolissi ma nemmeno tanto brevi da tralasciare qualcosa di importante.
Bisogna poi ricordare che è essenziale la verosimiglianza dei fatti, i quali
devono essere attendibili e devono essere disposti in maniera tale da assolvere
alle tre funzioni della retorica: docere, movere e delectare.
Argomentazione
Cuore del discorso persuasivo è
l'argomentazione (πίστις o ἀπόδειξις, argumentatio), il resoconto delle prove
a sostegno della tesi, che può prevedere anche un affondo contro le tesi
avversarie. La sua struttura interna si compone di due parti: propositio e confirmatio, a cui può seguire una
terza, l'altercatio. La propositio è una definizione
ristretta della causa (o delle cause) da dibattere, subito seguita dalla confirmatio, l'elenco delle ragioni a
favore, nell'ordine: dapprima quelle più forti, in seguito le più deboli e
infine le più forti in assoluto. Talvolta, specie durante un processo, la confirmatio può essere interrotta
dall'intervento di un avversario, come ad esempio un avvocato di parte opposta:
in questo caso si parla di altercatio,
un dialogo serrato tra il retore e il suo avversario.
Epilogo
(perorazione)
L'epilogo (ἐπίλογος, peroratio) è la parte conclusiva
dell'orazione, e si muove su due livelli: riprende e riassume le cose dette (enumeratio e rerum repetitio), tocca le corde dei
sentimenti (ratio posita in affectibus).
Da un lato, il retore deve concludere dando un'idea d'insieme di quanto è stato
detto e sostenuto, richiamando alla memoria i punti fondamentali; dall'altro,
ha luogo la perorazione vera e propria, che fa leva sui sentimenti
dell'uditorio ricorrendo a dei loci prestabiliti (in genere atti a
creare indignazione o commiserazione).
L'elocuzione: lo stile
L'elocuzione (elocutio in latino,
λέξις, lexis, in greco)
è la parte che riguarda l'espressione, la forma da dare alle idee. L'elocutio si occupa dello stile da
scegliere affinché il discorso risulti efficace, studiando quindi la parte
estetica dell'espressione, la scelta (electio)
e l'ordine (compositio) da dare alle
parole. Sotto questo aspetto la retorica invade il campo della poetica,
riprendendone gli elementi di ornamento, tra cui le più importanti sono
le figure.
La composizione
La parte centrale dell'elocutio è rappresentata dalla
cosiddetta compositio,
operazione che consiste nella scelta e combinazione dei termini. Affinché il
discorso possa risultare efficace, è necessario tenere conto nella fase di
composizione di quattro qualità o
requisiti fondamentali, meglio noti come virtutes elocutionis:
l'aptum (in greco πρέπον, prépon), l'adeguatezza del discorso al contesto in cui deve essere
pronunciato;
la puritas (o latinitas),
la correttezza sintattica e grammaticale;
la perspicuitas, la chiarezza, necessaria affinché il discorso sia
comprensibile;
l'ornatus, gli ornamenti e tutti gli altri mezzi atti a rendere il
discorso più bello e quindi più gradevole.
Tutte queste caratteristiche
devono essere presenti, applicate o a singole parole o a intere frasi. Talvolta
il mancato rispetto di una delle virtutes può
essere giustificato da determinate esigenze espressive, e in questo caso si
parla di licenza (licentia); in caso contrario, la
mancanza viene sanzionata come errore
(vitium).
Gli stili
L'espressione varia a seconda
degli argomenti e della situazione in cui il discorso deve essere pronunciato.
Per questo motivo, la retorica classica distingue tre stili (genera elocutionis):
nobile
o sublime (genus sublime o grave),
umile
(genus humile o tenue),
medio
o moderato (genus medium).
Il sublime è lo stile nobile, elevato, e viene utilizzato per
trattare di argomenti seri facendo leva sui sentimenti (movere), suscitando forti passioni; l'umile ha lo scopo di docere et probare, mentre lo stile medio, misto dei due precedenti,
deve delectare attraverso
un atteggiamento moderato che tenga conto dell'ethos.
La memoria
La mnemotecnica, la scienza che mira a sviluppare la memoria attraverso
una serie di regole, è molto antica: tra gli intellettuali che si interessarono
di questa disciplina ricordiamo il sofista Ippia di Elide e i
filosofi Raimondo Lullo, Pico della Mirandola e Giordano
Bruno. Nel corso del Seicento la mnemotecnica classica finì per
essere assimilata alla ars
combinandi, teoria della combinazione degli elementi associata al calcolo
matematico.
La memoria entra a pieno titolo
nel sistema della retorica classica a partire dal Libro
III della Rhetorica ad
Herennium (I secolo a.C.), e ricopre un ruolo importante in funzione
della recitazione, poiché
permette di mandare a mente la struttura e gli argomenti del discorso senza
dover ricorrere ad appunti scritti, risultando particolarmente utile quando la
situazione richiede di improvvisare. Generalmente si distinguono due tipi di
memoria: la memoria naturale e quella artificiale. La prima è la dotazione
naturale di cui dispongono tutti gli individui, mentre la seconda, che ha lo
scopo di rafforzare la prima, viene appresa tramite una tecnica – la
mnemotecnica, appunto – che funziona attraverso immagini e punti di riferimento
fissi, ai quali vanno associati gli oggetti da ricordare: in questo modo l'atto
del ricordare diventa una scrittura mentale, in cui ad ogni immagine
corrisponde un oggetto e quindi un significato.
La recitazione
Infine, il retore deve anche
essere in grado di recitare la propria orazione di fronte a un pubblico. Questo
momento prende il nome latino di actio o pronunciatio (in greco ὐπόκρισις, hypókrisis), e la sua efficacia è legata
al modo in cui chi parla si presenta di fronte all'uditorio. Al retore è dunque
richiesto di essere anche attore, di avere cioè buone capacità di recitazione,
così da coinvolgere il pubblico attraverso la gestualità e il tono
di voce. La sua indubbia importanza è stata tuttavia messa in secondo
piano dai retori e dai teorici, che nei loro trattati preferiscono concentrarsi
su inventio, dispositio ed elocutio, specie in riferimento
alla produzione di testi scritti.
Le figure del discorso
Oltre ad occuparsi della
costruzione del discorso, la retorica si interessa anche allo studio degli
ornamenti, e in particolar modo all'uso delle figure. In origine le figure erano usate esclusivamente
in poesia; il primo a farne uso in prosa, a quanto sappiamo, fu Gorgia:
la retorica gorgiana si caratterizzava infatti per una forte enfasi e una
grande ricercatezza stilistica, e il suo periodare era reso melodico dall'uso
frequente di espedienti ricavati dalla poesia.
Il termine «figura» (σχῆμα, schēma) è usato per la prima volta
da Anassimene di Lampsaco (IV secolo a.C.), ma il primo a studiare le
figure in modo sistematico è Aristotele, il cui allievo Demetrio Falereo in
seguito proporrà la distinzione tra figure
del discorso e figure del
pensiero. Nel corso dei secoli, e soprattutto in epoca barocca, i
teorici si sono impegnati in un'imponente opera di classificazione delle varie figure, senza però giungere ad una tassonomia condivisa.
In particolare, a destare interesse sono le figure
di significazione, altrimenti dette tropi,
la cui collocazione è oggetto di dibattito: talvolta i tropi vengono
semplicemente inseriti insieme alle altre tipologie di figure, mentre altre
volte vengono distinti e ad esse opposti. Di seguito si riporta, a titolo
esemplificativo, la classificazione proposta da Fontanier (1830), citata a
pagina 144 del Manuale di retorica di Bice Mortara Garavelli, nella
quale le figure del discorso sono divise in tropi
e non tropi.
FIGURE DEL DISCORSO
|
|
Tropi
|
Figure di
significazione (tropi veri e propri)
|
Figure di espressione
(tropi impropriamente detti)
|
|
Non tropi
|
Figure di dizione
(metaplasmi)
|
Figure di costruzione
|
|
Figure di elocuzione
|
|
Figure di stile
|
|
Figure di pensiero
|
Τρόπος (trópos) in greco propriamente significa «direzione», ma
il suo significato originario è stato successivamente abbandonato per quello di
«deviazione», «conversione». Per tropo infatti si intende una variazione (mutatio) del significato di un'espressione
rispetto al suo significato originario; i tropi propri (figure di
significazione) riguardano singole parole, mentre quelli impropri (figure di espressione) riguardano più parole o parti di frasi. Sul
loro numero e la loro classificazione non vi è accordo; quelli fondamentali, a
cui possono essere ricondotti tutti gli altri, sono 3: metafora, metonimia, sineddoche. La metafora (da metapherein,
trasportare) è il più classico dei tropi, e consiste nella sostituzione di una
parola con un'altra il cui senso ha qualche affinità con la parola che
sostituisce. Si ha invece una metonimia quando
si definisce un oggetto con un termine diverso, il cui significato è però
continuo a quello dell'oggetto in questione (per esempio: «cuore» per indicare
i sentimenti, «Foscolo» per indicare le sue opere). La sineddoche infine (talvolta confusa
con la metonimia) consiste nel definire un oggetto con un termine legato ad
esso tramite rapporti di causalità o inclusione (per esempio: «legno» per
indicare un'imbarcazione, «felino» per indicare un gatto). Oltre a queste
tre, Lausberg classifica come tropi anche: antonomasia, enfasi, litote, iperbole, perifrasi, ironia, metalessi.
Le altre figure retoriche, che
Fontanier classifica come «non tropi» e suddivide in cinque classi, vengono più
semplicemente divise dalla retorica antica in due gruppi: figure di parole (in cui rientrano
le figure di dizione, costruzione,
elocuzione e stile) e figure del
pensiero. Le figure di parole
riguardano l'espressione linguistica, e si costruiscono per addizione (ripetizione, climax, paronomasia etc.)
o soppressione di parole (ellissi, asindeto e zeugma), oppure ancora per
mutamento dell'ordine delle parole (anastrofe, iperbato etc.).
Le figure di pensiero invece
interessano le idee o le immagini che appaiono dalla frase, e si ottengono per
addizione o sottrazione (ossimoro, chiasmo etc.),
oppure per variazione (hysteron
proteron, apostrofe etc.).
giovedì 22 gennaio 2015
19 - LA RETORICA (parte prima)
La retorica è l'arte
di parlar bene (in greco antico ῥητορικὴ τέχνη,
traslitterato in rhetorikè téchne,
«arte del dire»). Essa è la disciplina che studia il metodo di composizione dei
discorsi, ovvero come organizzare il linguaggio naturale (non
simbolico) secondo un criterio per il quale a una proposizione segua una
conclusione. Sotto questo aspetto essa è un metalinguaggio, in quanto cioè
un «discorso sul discorso».
Lo scopo della retorica è
la persuasione, intesa come approvazione della tesi dell'oratore da parte
di uno specifico uditorio. Da un lato, la persuasione consiste in un
fenomeno emotivo di assenso psicologico; per altro verso ha una
base epistemologica: lo studio dei fondamenti della persuasione è studio
degli elementi che, connettendo diverse proposizioni tra loro, portano a una
conclusione condivisa, quindi dei modi di disvelamento
della verità nello specifico campo del discorso.
Aspetti generali
Nel corso della storia
occidentale la retorica è stata qualificata come “arte”: in greco la
parola τέχνη (téchnē), che
comunemente viene tradotta con arte (ars in latino), indica più propriamente l'abilità manuale
tecnica e artigianale, e da questo termine deriva la parola
"tecnica". In particolare la retorica è l'“arte del
discorso”: essa infatti si occupa dei discorsi in prosa scritti
con un linguaggio “ornato” (quindi in certa misura “artificiosi”) allo
scopo di persuadere qualcuno, cioè convincere o far mutare d'opinione chi
ascolti. Emergono da qui due aspetti: da un lato la retorica studia come
organizzare e strutturare un'orazione (parte che potremmo definire
“sintagmatica”); dall'altro, essa si occupa anche del cosiddetto ornatus, cioè di tutti quei procedimenti
stilistici (figure, tropi, colori in generale) che servono a
ornare il discorso così da renderlo più gradevole e quindi più efficace (parte
“paradigmatica”).
Lo scopo della retorica è
quello di fornire a retori e oratori (e non alla massa degli ascoltatori) le
nozioni teoriche necessarie per comporre un discorso persuasivo. Nel corso dei
secoli i teorici si sono impegnati a individuare i vari elementi e organizzarli
in una tassonomia generale, senza però mai raggiungere una
classificazione condivisa: il risultato è una lunga serie di trattati che,
dall'antichità ai giorni nostri, passando per il Medioevo e
il Barocco, hanno offerto agli oratori un insieme di regole da tener
presente nella stesura di un discorso. Questo ingente numero di trattati,
tuttavia, ha contribuito non poco alla stessa decadenza della retorica, la
quale ancora oggi è vista con una certa diffidenza. Retorica, per il senso
comune, è sinonimo di arte del discorso artificioso, costruito seguendo alla
lettera un insieme di rigide regole stilistiche raccolte in manuali. In realtà,
va detto che la retorica non si riduce affatto a una materia d'insegnamento, da
trasmettere nelle scuole ed esercitare in maniera pedissequa; al contrario,
come scrive Roland Barthes, la retorica è a sua volta anche:
una scienza, in quanto
studia in maniera rigorosa i fenomeni e gli effetti del linguaggio;
una morale, poiché la
capacità di sfruttare ambiguità del linguaggio la rende un'arma potente, che
richiede un codice morale per essere esercitata senza arrecare danni;
una pratica sociale,
poiché nell'Antichità differenziava i potenti (chi ha accesso all'arte della
persuasione) dai sudditi (coloro che soccombono al potere ammaliante della
parola);
una pratica ludica, un
giocare con le parole e il linguaggio (parodie, scherzi, doppi sensi).
Cenni
storici
Le origini
Per la nascita della retorica è
possibile fornire
indicazioni geografiche e cronologiche precise: allorché
nel 465 a.C. terminò la tirannia di Trasibulo, ultimo dei
fratelli Gelone e Gerone I, che si erano resi protagonisti di
massicci espropri di terreni, molti cittadini di Siracusa intentarono
processi per tornare in possesso dei beni confiscati, facendo valere i propri
diritti in tribunale con l'arma della parola. In questo contesto il primo
a dare lezioni di eloquenza pare fu il filosofo Empedocle di Agrigento,
subito imitato dai suoi allievi siracusani Corace e Tisia,
primi a scrivere manuali di retorica (il primo fu scritto da Corace
attorno al 460 a.C.) e a chiedere un compenso per i propri insegnamenti.
Corace e il suo discepolo Tisia
vengono sovente indicati come i «padri» della retorica, sebbene la
testimonianza di Cicerone ci informi che essa doveva essere conosciuta
in Sicilia fin da tempi remoti: il loro merito sta dunque nell'aver
teorizzato «con metodo e precettistica» quella che era un'antica pratica.
Fondamento della loro arte (a quanto risulta dalla testimonianza di Platone) è
il concetto di «verisimile» (eikós),
ovvero tutto ciò che non può essere definito «vero» o «falso» in termini assoluti,
che essi studiarono con un metodo rigoroso, scientifico.
Gli insegnamenti dei due retori
si affermarono rapidamente in Sicilia, ma il loro non fu certo l'unico
orientamento diffuso: in contrapposizione alla loro retorica scientifica si
affermò nella scuola pitagorica una retorica che potremmo definire
irrazionalista, basata sulla seduzione che la parola è in grado di esercitare
sull'anima di chi ascolta (psicagogia).
I pitagorici distinguevano gli argomenti e i discorsi in base al tipo di
pubblico (polytropía), e facevano
largo uso di antitesi; inoltre, sempre a essi si deve la prima teoria
del kairòs («opportuno»), concetto inteso come armonia numerica e
strettamente collegato alla polytropía, con il quale si indica il grado di
opportunità di un discorso in relazione all'uditorio che si ha di fronte.
Nel corso del V secolo
a.C., dalla Magna Grecia la retorica giunse rapidamente in Attica,
e soprattutto ad Atene, grazie all'attività di insegnamento dei sofisti. Nell'età
di Pericle, che per molti versi rappresentò l'età d'oro della polis ateniese,
intellettuali come Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia,e Trasimaco, trovarono
terreno fertile: molti giovani di buona famiglia accorrevano da ogni parte per
apprendere, dietro compenso, le lezioni impartite da questi "maestri di
virtù", che giravano di città in città insegnando come tenere discorsi
nelle assemblee pubbliche. E proprio l'insegnamento della retorica li indusse a
sviluppare ulteriormente questa tecnica. Protagora ad esempio, padre della
Sofistica, concentrava la propria attenzione su problemi di carattere linguistico e semantico (e
lo stesso farà Prodico), alla ricerca di un logos horthótatos, un linguaggio rigoroso e formalmente preciso per
definire le cose. Egli era poi un sostenitore del relativismo etico e gnoseologico,
espresso dalla celebre massima secondo cui l'uomo è misura di tutte le
cose: da queste considerazioni scaturiva il suo interesse per i discorsi
contrastanti (dissòi lògoi) e
l'antilogica, la tecnica che ha lo scopo di trovare per uno stesso oggetto due
argomenti contrapposti, uno cioè che lo afferma e uno che lo nega (portata
all'estremo, questa tecnica prende il nome di “eristica”).
Inoltre, con i sofisti la
retorica comincia a intrattenere stretti rapporti con la poesia, cessa di
essere usata solo in tribunali e assemblee pubbliche e assume valore epidittico, diventando un'arte a sé
stante: tutto questo soprattutto grazie a Gorgia di Leontini e
Trasimaco di Calcedonia. Per essi l'arte di persuadere era da
intendersi soprattutto come una forma di suggestione, totalmente avulsa da ogni
esigenza di giungere a una conoscenza o un convincimento basati su argomenti
razionali e sulla produzione di prove e argomenti a favore. Il retore doveva
possedere una persuasività tale da convincere chiunque di qualsiasi cosa, a
prescindere dall'argomento trattato: il logos, la parola, afferma Gorgia nell'Encomio di Elena, è onnipotente sia sugli uomini sia sugli dei, e
la sua potenza consiste appunto nell'indurre a ritenere giusto e vero ciò che
si afferma. La particolare predilezione della Sofistica per la capacità di
persuasione dell'orazione e tutti gli strumenti retorici a essa collegata (la
cosiddetta doxa o
"verosimiglianza") attirò le ire della maggior parte delle poleis e degli oratori o logografi
di professione, i quali sostenevano che quest'uso del logos era tanto
spregevole quanto subdolo e scorretto.
In particolare, Gorgia, allievo
di Empedocle, fu il primo a introdurre nella prosa i tropi, le figure e tutti gli ornamenti tipici della poesia, mentre
Trasimaco divenne celebre per l'invenzione dello stile «medio», opposto a
quello aulico del sofista di Leontini.
L'oratoria di età classica
Durante il V secolo a.C.
l'oratoria si diffuse largamente ad Atene, favorita dal diritto di partecipare
alla vita pubblica che la polis democratica
riconosceva a tutti i cittadini. Sia nelle assemblee sia nei processi la
deliberazione era affidata al voto della comunità, di fronte alla quale il
cittadino si presentava per tenere un discorso: per far valere i propri
interessi e i propri diritti era dunque necessario padroneggiare al meglio
l'arte della parola. A questo periodo risalgono le prime schematizzazioni che
precisano le parti di cui devono essere composti i diversi tipi di discorso,
soprattutto per quanto riguardava il genere giudiziario
(discorsi di accusa o difesa), mentre più flessibile era il caso del deliberativo (tipico delle orazioni
politiche) e dell'epidittico
(orazioni pubbliche tenute durante festività o funerali). Tuttavia all'oratore,
per avere successo, erano necessarie preparazione e doti personali, e poiché
non tutti disponevano di denaro per studiare o di particolare attitudine a
parlare in pubblico, presto si diffuse la pratica di rivolgersi a un
professionista della retorica: il logografo.
Questi scriveva discorsi che poi il committente avrebbe imparato a memoria e
ripetuto in tribunale.
Un canone di epoca ellenistica
elenca i nomi di 10 oratori ateniesi, distintisi per la loro eccellenza:
Antifonte, Andocide, Lisia, Isocrate, Demostene, Iseo, Licurgo,
Eschine, Iperide e Dinarco. Di questi, i più antichi furono Antifonte
di Ramnunte e Andocide, entrambi appartenenti all'aristocrazia e
coinvolti nella vita politica ateniese ai tempi della Guerra del
Peloponneso: Antifonte (che forse fu anche sofista) fece parte della Boulé dei Quattrocento e fu per
questo motivo giustiziato, mentre Andocide fu coinvolto nello scandalo delle erme e costretto
all'esilio.
Nato in una famiglia di meteci, Lisia fu un logografo e scrisse in dialetto attico puro,
senza figure retoriche. Sostenne l'importanza dell'etopea, cioè della capacità di immedesimarsi nel carattere del
personaggio che difendeva e divenne un modello per gli atticisti. Difatti la maggior parte
dei logografi suoi contemporanei non badava al rapporto tra personaggio
pronunciante e discorso pronunciato, facendo sì che molte memorabili orazioni
passate alla storia per la raffinatezza stilistica e lessicale fossero in
realtà pronunciate da soggetti non istruiti, o comunque non abbastanza dotti da
poter comporre un'orazione come quella appena pronunciata. Inoltre, alla
capacità mimetica Lisia
univa un grande talento narrativo, con il quale descriveva in modo sobrio scene
estremamente drammatiche, come uccisioni e vendette. Il suo stile si presenta
quindi elegante, essenziale e preciso: ogni causa giudiziaria è unica, e in
quanto tale richiede che la sentenza sia valutata attentamente e commisurata
alla situazione.
Anche Demostene, vissuto
nel IV secolo a.C. e rivale di Isocrate ed Eschine, all'inizio della
sua carriera fu un logografo e si dedicò alla retorica giudiziaria. La sua fama
è però dovuta al suo impegno nella vita pubblica e alla sua oratoria politica:
in particolare si oppose con forza alla mire espansionistiche di Filippo
II di Macedonia, contro il quale compose le famose Filippiche, in cui il sovrano veniva presentato come un barbaro
nemico dei valori della democrazia e gli ateniesi erano invitati a ridestarsi
dall'inazione per difendere le libertà comuni, andando in soccorso delle città
sotto assedio macedone. Lo stile di Demostene si caratterizza quindi per
vitalità e vigore, ricco di metafore, iperboli, apostrofi e drammatici effetti
a sorpresa: il pathos della sua oratoria mirava infatti a infiammare
gli animi degli ascoltatori e persuaderli della necessità di impegnarsi
attivamente nell'azione politica.
Ben diversa fu l'opera di Eschine,
assertore (come altri intellettuali) dell'inevitabilità del dominio macedone
sulla Grecia. Egli si rivelò un grande esperto di questioni legali, e la sua
oratoria è caratterizzata da lucidità e coerenza logica, ma è priva
del pathos che rese celebre il suo avversario Demostene. Quest'ultimo
trovò invece un alleato in Iperide, che si batté contro l'egemonia
macedone fino al sacrificio estremo (fu giustiziato da Antipatro nel 322
a.C.): poco è giunto ai giorni nostri delle sue orazioni, in cui, con eleganza
e ironia, ritraeva scene di vita quotidiana, nel solco tracciato dallo stile di
Lisia.
Platone
Nel IV secolo a.C., Platone oppose
alla concezione sofistica una propria visione della retorica: negando che essa
sia un'arte (techne), il filosofo le
preferì la definizione di «abilità» (empeiria), attribuendole
però allo stesso tempo una funzione eminentemente pedagogica, come
strumento in grado di guidare l'anima attraverso argomentazioni e ragionamenti
(la cosiddetta psicagogia). In
altre parole, dalla retorica dei sofisti, a cui venivano ascritte unicamente
caratteristiche negative, Platone distingueva una retorica per così dire
«buona», la quale, esercitata dai filosofi e quindi orientata allo studio della
filosofia, potesse essere di utilità per instradare alla conoscenza del bene.
La pratica della retorica veniva così ricondotta nell'alveo della stessa filosofia,
con la quale finiva per identificarsi, svuotata della propria autonomia.
Cambiavano di conseguenza gli interlocutori - non più il popolo o i giudici - e
i luoghi - non più assemblee o giudizi.
D'altra parte, è fuor di dubbio
che a instradare il giovane Platone allo studio del rapporto tra filosofia e
retorica fu la frequentazione del maestro Socrate, il quale,
nell'esercizio della sua maieutica,
faceva uso di una particolare e originalissima forma di retorica, fatta di
domande e risposte brevi (la cosiddetta brachilogia, contrapposta alla macrologia dei sofisti).L'Accademia platonica riprenderà
le teorie di Platone riguardanti la ἀλήθεια (alétheia) o "verità", in netto contrasto con la visione
sofistica, secondo la quale la verità deve essere posta in secondo piano,
sottostante all'eloquenza dell'oratore e alla sua capacità di convincere
l'uditorio riguardo l'attendibilità e la veridicità del suo discorso.
Isocrate
Contemporaneo di Platone e
allievo di Gorgia, Isocrate formulò un'interessante proposta
educativa (paideia) fondata
sull'apprendimento della retorica e messa in pratica nella sua scuola,
concorrente dell'Accademia platonica. L'intento del retore, che amava definirsi
filosofo (in un'accezione differente da quella di Platone), era quello di
formare cittadini virtuosi attraverso lo studio della retorica: erede della
lezione della Sofistica, egli riteneva la virtù nient'altro che la ragionevole
opinione condivisa dai membri della polis,
che doveva essere sempre tenuta presente dal retore nei propri discorsi così da
guadagnare una buona reputazione. La virtù per Isocrate, infatti, non
consiste in una ricerca infinita che miri al bene e alle verità somme, né può
essere insegnata come fosse una techne,
e chi, come certi filosofi, dice di poterlo fare, mente; all'opposto di
questi insegnamenti, che egli definisce «vuote chiacchiere», vi è l'arte della
parola, che è l'arte umana per eccellenza, quella che distingue gli uomini dagli animali e
fa sì che possa esserci la civiltà.. La sua è dunque una posizione
pressoché intermedia tra i due estremi della retorica greca del V secolo a.C.,
ovvero la Sofistica
e l'Accademia platonica (che sostenevano rispettivamente la δόξα e la ἀλήθεια).
Inoltre, poiché la retorica
insegna a scegliere l'argomento di volta in volta più opportuno (kairós) per convincere il pubblico che
si ha davanti, essa fornisce a chi la pratica (purché abbia una certa predisposizione)
gli strumenti necessari per poter discernere, in qualsiasi ambito professionale
o nella vita quotidiana, quelle tra le diverse opzioni che risulteranno più
utili al raggiungimento del successo personale.
Isocrate tenne soprattutto
orazioni dimostrative, con uno stile armonioso; si trattò dunque di un
esponente della cosiddetta oratoria epidittica
(dal termine greco epideiktikós,
derivato di epideíknymi ossia
«dimostrare»). Era questo il genere di eloquenza tenuto dagli antichi oratori
greci nelle cerimonie pubbliche, spesso in occasione dei funerali in
cui si rendeva necessario tessere le lodi del defunto. Una caratteristica
fondamentale di Isocrate era costituita dalla sua cura formale per l'orazione:
talvolta questo lavoro di lima diveniva
così ampio da richiedere una quantità di tempo smisurata. Così facendo non
capitava di rado che Isocrate - o chiunque in sua vece - pronunciasse orazioni
riguardanti tematiche ormai datate.
Aristotele
Diversamente da Platone che le
rifiutava il titolo di techne, Aristotele
di Stagira definì la retorica «la facoltà di scoprire il possibile mezzo
di persuasione riguardo a ciascun soggetto». Egli distolse l'attenzione
dal considerare la retorica una mera arte della persuasione, incentrando invece
l'analisi sullo studio dei mezzi di persuasione, strumenti indipendenti
dall'oggetto dell'argomentare. La retorica riacquista così una funzione
propria, autonoma dalla filosofia e in stretta relazione con la dialettica, della quale è da considerare
la controparte. Il merito di Aristotele è quello di aver raccolto in un sistema
organico tutte le scoperte fatte fino ad allora dai retori, sottolineando come
la retorica debba essere una tecnica rigorosa strettamente legata alla logica: mentre la dialettica produce le proprie
dimostrazioni per mezzo dei sillogismi,
la retorica ricorre all'entimema, il
sillogismo retorico basato su premesse probabili (éndoxa). Tuttavia - e qui sta la differenza con la logica - come le premesse, anche le
conclusioni a cui giunge l'entimema
sono solo probabili, e quindi passibili di confutazione.
Più in generale, lo studio
sistematico della retorica in quanto techne viene
portato avanti dallo Stagirita partendo dall'analisi di tutti gli
elementi entechnoi, quelli cioè
interni alla retorica, in primis le argomentazioni dimostrative (pisteis): tra esse la principale è l'entimema (deduzione retorica), ma va
ricordato anche l'esempio (induzione retorica). Inoltre,
Aristotele dedica particolare attenzione a classificare i generi del discorso (giudiziario, deliberativo, epidittico),
organizzandoli in base al tipo di uditorio (il
giudice, l'assemblea politica, un generico pubblico) e al tempo (presente per chi si difende in tribunale,
futuro per chi delibera, passato per chi elogia). Successivamente, il
filosofo si dedica anche all'ethos e
alle passioni (pathos), lasciate
inizialmente in secondo piano, evidenziando come anch'esse, al pari degli
elementi «dialettici», risultino indispensabili se si vuole persuadere
qualcuno.
Col passare del tempo, la
retorica finirà per identificarsi con l'arte dello scrivere corretto e
dell'eloquio fluente, ma l'influenza dello Stagirita e del suo sistema
continuerà a perdurare nei secoli a venire.
L'ellenismo
Durante l'ellenismo la
retorica continuò a essere studiata e a destare l'interesse dei filosofi, in
particolare degli Stoici. Zenone, padre di questa corrente
filosofica, definì la retorica e la dialettica come le due parti di cui si
compone la logica, raffigurata attraverso la celebre immagine della mano: il pugno chiuso indica il carattere
conciso della dialettica, mentre la mano aperta con le dita distese rappresenta
la retorica e i suoi modi diffusi. Alla retorica veniva pertanto
riconosciuto il medesimo valore attribuito alla prosa filosofica, e ne veniva
rilevata l'utilità a scopo didattico: essa è l'arte del parlar bene, e parlar
bene, per gli stoici, significa dire la verità. In questo modo, la retorica
sembra contendere il campo alla filosofia, riaprendo l'antico dissidio che
aveva contrapposto Platone ai sofisti.
Su questo solco si collocano le
riflessioni di altri filosofi stoici, come Crisippo, Cleante e Diogene
di Babilonia, e a queste dottrine si rifà anche Ermagora di Temno, retore
tra i più celebri e importanti del II secolo a.C. La sua teoria viene
ricordata soprattutto per due aspetti: la divisione tra ipotesi e tesi, e
l'introduzione del concetto di stasis.
Anzitutto, secondo Ermagora, la retorica non si deve occupare solo di
controversie personali riguardanti singoli individui, le hypotheseis, ma anche di questioni di
carattere generale e universale, cioè le theseis; in questo modo, la retorica invade ancora una volta (non
senza aspre polemiche) il campo della filosofia, e oggetto del suo interesse
diventano il bene e il giusto. Inoltre, Ermagora si soffermò sulla trattazione
della stasis (in
latino status), la
determinazione della questione principale di cui si occupa l'orazione, a
partire dalla quale egli proponeva una propria classificazione dei discorsi,
che interessava prevalentemente quelli giudiziari e che, a differenza di
Aristotele, distingueva due generi: il genere
razionale (γένος λογιστικόν) e il genere
legale (γένος νομικόν). Il primo dipende dal senso comune, e può essere suddiviso nei sottogeneri
“congetturale”, “definitivo”, “qualitativo” e “traslativo”; il genere legale,
invece, riguarda la legislazione e può essere ulteriormente suddiviso
nei sottogeneri riguardanti la lettera,
le leggi contrarie, l'ambiguità e il sillogismo.
Sempre nel II secolo a.C. si
assiste poi allo sviluppo di due diversi stili di retorica, corrispondenti a
due diversi orientamenti e due diverse scuole:
La corrente asiana
Dalla corrente asiana derivò la
famosa corrente dell'asianesimo (vale
a dire «che è nata in Asia Minore») nel III secolo a.C. Era uno
stile retorico ridondante, fortemente ritmato, barocco e ampolloso, in cui
veniva fatto un uso frequente di frasi spezzate, metafore e parole inventate,
che però conobbe una grandissima diffusione. Caposcuola di questa corrente
fu Egesia di Magnesia. L'asianesimo si affermò anche a Roma nel I
secolo a.C. insieme con una corrente rivale, quella attica.
La corrente attica
Dalla corrente asiana deriva,
come controproposta purista e conservatrice, un altro famoso stile retorico, l'atticismo (cioè «che è nativo dell'Attica, Grecia»).
Era uno stile retorico cronistico, caratterizzato una scrittura scarna e, per
usare un termine moderno, telegrafica. Modello di questo stile retorico fu il
famoso oratore Lisia, oltre a Isocrate e Senofonte. L'atticismo si
affermò a Roma nel I secolo a.C. come rivale dell'asianesimo.
Questi due stili erano
rigidamente opposti, tanto da generare forti scontri nei secoli successivi. Il
principale esponente dell'asianesimo fu Teodoro di Gadara, mentre tra gli
atticisti si ricordano Apollodoro di Pergamo, Dionigi di Alicarnasso e Cecilio
di Calacte.
La retorica nella Roma
repubblicana
Nel mondo greco la retorica
mantenne sempre una certa importanza nell'educazione dei giovani (paideia), venendo compresa tra le
materie di insegnamento. L'arte del parlare (oratoria) si sviluppò grazie alla parresia, la libertà di parola ed espressione: durante il
governo di Pericle ad Atene si arrivò a dare a tutti la possibilità
di esprimersi in pubblico. Anche in seguito la retorica e l'oratoria
continuarono a vivere e svilupparsi, sebbene i retori furono sempre meno
affermati. I Romani, con la conquista dell'Oriente e della Grecia a seguito
della battaglia di Pidna del 168 a.C., entrarono in contatto con
la cultura ellenica, restandone fortemente influenzati.
L'oratoria rimase a Roma uno
strumento riservato alla nobilitas per
avanzare nel cursus honorum.
Essa veniva applicata inizialmente solo da schiavi, liberti e italici, e veniva
considerata un'attività legata agli otia,
cioè al tempo libero. Iniziatore della prosa oratoria latina è
considerato Appio Claudio Cieco, il quale nel 280 a.C. tenne un
discorso per persuadere i senatori a non accettare le condizioni di pace poste
dal re dell'Epiro Pirro subito dopo la vittoria di Eraclea. Alla
fine dell II secolo a.C. le orazioni mostrano una prima assimilazione
delle teorie greche. Un alto livello viene raggiunto da Marco Antonio e Lucio
Licinio Crasso, che individua l'importanza dell'arte retorica nella vasta e
raffinata cultura e nello stile utilizzato, cioè l'elocutio, la capacità di scegliere i termini per adattarli
elegantemente nel testo. Lo stesso Crasso, d'altra parte, in qualità di censore
fece chiudere nel 92 a.C. la scuola dei rhetores Latini di Lucio Plozio Gallo. La retorica
romana nell'età della grande espansione territoriale è caratterizzata
soprattutto dalla preminenza della figura di Marco Porcio Catone, detto
anche Catone il Vecchio o "il Censore". I suoi discorsi sono
caratterizzati da uno stile semplice e conciso, da frasi taglienti, debitrici
dell'influsso greco, anche se tanto attaccato dalla sua politica conservatrice.
È un'opera oratoria quasi esclusivamente politica le cui tematiche sono il
ruolo degli equites, la
questione del lusso, la politica interna ed estera. I conflitti politici del II
secolo a.C. incentivarono l'arte oratoria, e molti oratori di questo periodo
provennero dal Circolo degli
Scipioni, oppositori del progetto politico dei Gracchi, i fratelli
Tiberio e Caio.
A Roma la retorica fu quindi
materia molto studiata e molto praticata, sia nelle sue applicazioni forensi
sia in quelle politiche: ne è un chiaro esempio Cicerone, nativo di Arpino, con
le sue famose Verrine, orazioni
scritte contro il propretore della Sicilia Verre; ma non può certo
tralasciarsi il ruolo essenziale che, dopo di lui, ebbe Quintiliano, che
nella Institutio Oratoria elaborò
una vera e propria silloge della retorica classica così come si era
sviluppata fino alla sua epoca.
Tra il 150 e il 100
a.C. circa si opposero tra loro le due scuole oratorie nate in Grecia,
quella asiana e quella atticista. L'ampollosità caratteristica
dello stile asiano fu incarnata dall'oratore Quinto Ortensio Ortalo. Tra
gli oratori atticisti, uno dei più importanti fu certamente Cesare, anche
se i suoi discorsi sono andati perduti. Accanto alla scuola attica e alla
scuola asiana, vi era anche una terza scuola retorica, detta rodiense, dalla città di Rodi appunto.
Esponente principale della scuola rodiense, sintesi delle vene stilistiche
contenutistiche delle altre due scuole, fu sicuramente Cicerone, i cui maestri
furono Apollonio di Alabanda e il suo seguace Apollonio Molone.
Proprio all'Arpinate viene
falsamente attribuito il più antico trattato latino di retorica giuntoci,
la Rhetorica ad Herennium.
Scritto presumibilmente tra l'88 e l'82 a .C., debitore delle teorie degli
stoici e in particolare di Crisippo ed Ermagora, questo testo punta
l'attenzione sul valore prettamente civile della retorica e sulla definizione
di verosimile, che viene distinto sia dagli argomenti storici sia da quelli
finti (fabulae). L'anonimo autore si
dedica poi a un'attenta analisi delle cinque parti della retorica, tra le quali
per la prima volta viene riconosciuta l'importanza della memoria.
Cicerone
Considerato il più importante
retore latino, Cicerone è ricordato sia per essere stato un grande oratore (a
lui si deve la diffusione dello stile
rodiense, con la sua prosa più temperata rispetto all'Asianesimo, ma priva
dell'asciuttezza dell'Atticismo), sia per le sue opere teoriche, in cui entrò
nel merito dei principali dibattiti in corso. Egli però evitò nei suoi testi
un'esposizione troppo tecnicistica, preferendo piuttosto fornire una visione
non specialistica della retorica e del ruolo dell'oratore, mostrando come essa
si radichi nel campo delle lettere e della filosofia: in questo modo, Cicerone
intendeva ribadire la nobiltà e l'utilità dell'eloquenza, sottolineandone
l'importanza civile e politica.
Nel De oratore, ad esempio, opera in tre libri sotto forma di dialogo
completata attorno al 55 a.C., egli affronta il tema del rapporto tra
filosofia e retorica, affermando, sulla scorta di Platone, che senza la
filosofia la retorica è vuota, ma che d'altro canto la retorica non può essere
screditata dai filosofi, poiché proprio l'eloquenza è il fondamento della
società civile. Filosofia e retorica non sono opposte, ma semmai
complementari, cosicché il buon retore deve essere filosofo: su questo solco si
colloca anche la riflessione del Brutus,
altra opera in forma di dialogo scritta attorno al 46 a.C., nella quale
viene delineata la figura del perfectus
orator, sintesi delle virtù rilevate nei principali retori e oratori del
passato. Sempre negli stessi anni Cicerone compone l'Orator, epistola indirizzata a Bruto in cui riprende quanto detto
in merito all'eloquenza nel De oratore, soffermandosi in particolare
sul numerus (ritmo);
infine, negli ultimi anni della sua attività compose i Topica e le Partitiones oratoriae, opere di
carattere più tecnico che riprendono Aristotele (in articolare i Topici e la teoria dei loci).
Quintiliano e la retorica
latina di età imperiale
Con il passaggio dalla Repubblica all'Impero,
la retorica perse la sua funzione politica e progressivamente diminuì di
importanza, pur rimanendo materia di studio. Molte informazioni sulla pratica e
l'insegnamento della retorica in questo periodo si devono all'opera di Seneca
il Vecchio, padre del più noto filosofo precettore di Nerone.
Con la concessione della cittadinanza romana da parte di Cesare ai maestri
delle arti liberali (49 a .C.),
le scuole di retorica crebbero di numero: qui i futuri retori dovevano
esercitarsi nelle declamationes con
tesi (θέσεις o quaestiones infinitae, cioè temi di carattere morale, politico,
filosofico) e ipotesi (ὑποθέσεις
o quaestiones finitae,
specifiche situazioni giuridiche). Queste esercitazioni a loro volta si
differenziavano in suasorie,
nelle quali si immaginava di dover persuadere un personaggio storico o mitico,
e controversiae, che si
collocavano sul terreno giudiziario e prevedevano l'applicazione di un
determinato principio legale.
Proprio nei primi anni
dell'Impero (I secolo d.C.) vive e opera il già ricordato Marco Fabio
Quintiliano, retore tra i più celebri e precettore dei nipoti dell'imperatore Domiziano.
Quintiliano teorizzò nella sua Institutio
Oratoria il percorso formativo che doveva seguire un giovane per poter
diventare un buon oratore ed essere quindi – secondo la formula di Catone il
Censore - vir bonus dicendi peritus.
Posto anch'egli di fronte alla spinosa questione del rapporto tra filosofia e
retorica, Quintiliano piega verso l'eloquenza, l'unica in grado di formare
cittadini onesti e moralmente saldi. Inoltre, seppur di primaria
importanza, il trattato non si esaurisce nell'analisi degli aspetti pedagogici,
ma sviluppa anche una serie di considerazioni sulla tecnica e la composizione:
la classificazione dei generi del discorso, le cinque fasi della composizione (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio),
le caratteristiche morali e culturali che deve avere un buon oratore (con
esplicito riferimento a molti altri autori, da prendere a modello), il rapporto
che il retore deve intrattenere con i politici.
Oltre a Quintiliano sono noti
altri retori che ebbero una certa rilevanza in età imperiale, come Publio
Rutilio Lupo (autore di un manuale di retorica, Schemata),Asinio Gallio, Larcio Licinio (che denigrò
Cicerone nel suo Ciceromastix), Domizio
Afro. Autori di orazioni furono anche Plinio il Giovane e Apuleio
di Madaura; e non si può dimenticare l'opera di Frontone, maestro
dell'imperatore Marco Aurelio, vissuto nel II secolo. Nelle sue
epistole egli spiega agli allievi l'importanza delle scelte lessicali,
invitando all'uso di termini arcaici, in grado di esprimere appieno un
concetto; non per questo, tuttavia, uno stesso discorso risulta efficace per qualsiasi
uditorio, ma anzi sarà necessario variare il proprio stile in funzione del
destinatario a cui ci si rivolge (per esempio plaude l'allievo imperatore che
non usa termini aulici di fronte al popolo).
L'Anonimo del Sublime
Al I secolo d.C.
appartiene un importantissimo trattato di retorica, noto con il titolo di Περί ὕψους, Sul Sublime. Nulla sappiamo del suo
anonimo autore, indicato dalle fonti come «Dionisio oppure Longino» e talvolta
identificato – a torto – con il sofista del III secolo Cassio Longino
(per questo motivo l'autore è detto anche Pseudo-Longino). Il contenuto
dell'opera si inquadra nel dibattito in corso in quegli anni sui tre stili
retorici, sublime/umile/medio,
soffermandosi in particolare sul primo dei tre, del quale l'Anonimo dice che
«trascina gli ascoltatori non alla persuasione ma all'estasi», poiché, mentre ciò che è convincente o grazioso è
facilmente alla portata di tutti, la grandiosità, di cui il sublime è
espressione, sovrasta ogni ascoltatore con la sua invincibile forza. Cinque
sono le fonti del sublime: la capacità di concepire grandi cose, una passione
violenta e ispirata, una particolare costruzione delle figure, uno stile
nobile, una disposizione solenne ed elevata delle parole. Le prime due sono
innate, mentre le altre tre possono essere apprese con la tecnica e
l'esercizio.
È opinione diffusa che
l'Anonimo svolga le proprie posizioni a partire da un terreno platonico,
poiché platonica è la tesi secondo cui l'essenza della poesia e dell'oratoria
risiede nel pathos: invece di
mirare all'utilità sociale, come volevano stoici e aristotelici, secondo
l'Anonimo la retorica deve ricercare l'eccezionalità, raggiungibile grazie a
passione e fantasia, abilmente disposte da un oratore dotato per natura di un
grande animo. Tuttavia, non per questo le tesi del Sublime si
riducono a una dottrina irrazionalistica, in cui tutto ruota attorno al
sentimento; al contrario, il trattato presenta una minuta precettistica che
riguarda i tropi e le altre regole da usare, con la riserva, però, che esse
devono comunque passare in secondo piano rispetto alla passione, l'unica in
grado di vincere la diffidenza e l'artificiosità che produrrebbe un discorso
troppo vincolato al rispetto delle norme stilistiche.
Età Tardoantica
Negli ultimi secoli dell'impero,
la retorica sarebbe rifiorita soprattutto sotto forma di oratoria sacra, prima
volta all'esegesi delle Sacre Scritture, e poi, con la patristica greca
(San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, San Gregorio di Nissa, San
Giovanni Crisostomo) e latina (Sant'Ambrogio, Sant'Agostino),
alla diffusione della dottrina cattolica.
Con la crisi dell'Impero,
la retorica continuò a essere materia di insegnamento durante tutto il Tardoantico,
e proprio in una scuola di retorica si formò il giovane Agostino d'Ippona. Gli
studi umanistici e retorici a cui fu sottoposto per volere del padre (che
sognava per il figlio una brillante carriera forense) furono per lui di estrema
importanza quando, convertitosi, si avvicinò allo studio dei Testi Sacri.
Dalla sua intensa attività ermeneutica,
perseguita per anni con estremo scrupolo, nacque il De doctrina Christiana, opera in 4 volumi dei quali i primi tre
sono dedicati all'esegesi biblica a partire dalla coppia concettuale res (contenuti) e signa (parole), mentre il quarto è
dedicato alle norme da seguire per una corretta esposizione della Verità
appresa. Proprio in quest'ultimo libro Agostino descrive quella che doveva
essere la «retorica cristiana», posta al servizio della predicazione: in
essa vengono riprese le norme della retorica classica, come la distinzione dei
tre stili (sublime, umile, medio) e
la necessità che il retore sia animato da rettitudine e sia – quindi – un
buon cristiano.
D'altra parte va ricordato che
anche prima di Agostino altri autori cristiani si erano rivolti alla retorica
classica per le loro opere apologetiche, come Tertulliano, Minucio
Felice e Lattanzio (quest'ultimo noto come “il Cicerone cristiano”); tuttavia, è con il De doctrina Christiana che il Cristianesimo acquisisce in
toto la retorica pagana per applicarla allo studio della Bibbia, la quale
con il suo stile semplice è vista come l'archetipo della retorica stessa. In
questo modo, la retorica continuerà a sopravvivere anche nel Medioevo.
Medioevo
Al V secolo risale
il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano
Capella, trattato in cui vengono presentate, sotto forma di personificazioni allegoriche,
le sette arti liberali del Septennium.
Nello specifico, le arti sono suddivise in due gruppi:
Trivium, le
arti che si occupano della parola:
Rhetorica,
Dialectica,
Grammatica,
Quadrivium, le
arti che si occupano della natura:
Musica,
Astronomia,
Arithmetica,
Geometria.
Il Septennium godette
di grande fortuna nel Medioevo, e fu ulteriormente sviluppato nei secoli
successivi da filosofi come Boezio, Cassiodoro, Prisciano, e Isidoro
di Siviglia. La retorica, in particolare, entrò di forza nella dinamica
dell'insegnamento scolastico, sebbene la sua importanza fu presto offuscata
dalle altre arti del Trivium, la
grammatica prima e la dialettica (logica)
poi. I metodi di insegnamento vigenti nelle scuole sono riconducibili a due
tipi di esercizi:
Lectio, che
prevedeva la lettura e la spiegazione di un testo fisso, solitamente preso
dalle Sacre Scritture. Si componeva di due momenti:
Expositio (interpretazione
del testo),
Quaestiones (discussioni
sulle parte del testo che ammettevano un pro e un contro),
Disputatio, sorta
di “tenzone dialettica” sotto la supervisione del maestro in quattro momenti:
Quaestio (problema
posto dal maestro),
Respondeo (proposta
di soluzione),
Sed
contra (obiezione alla soluzione proposta),
Determinatio
magistralis (soluzione del maestro).
L'esercizio della lectio fu in breve accantonato in
favore della disputatio, metodo
dal sapore agonistico sviluppatosi nell'università di Parigi, e
cresciuto di importanza con lo studio della dialettica derivata dalla logica
aristotelica: un celebre esempio di disputatio è rappresentato dallo scontro tra Abelardo e
il maestro Guglielmo di Champeaux, ricordato da Abelardo stesso nella
sua Historia calamitatum mearum.
La retorica dominò la scena
culturale nei secoli compresi tra il V e il VII, per poi essere superata
dalla grammatica (VII-X secolo) e dalla logica (X-XIII secolo). Il suo campo
d'azione fu suddiviso in tre tipi di artes:
le artes poeticae (preposte
alla poesia e alla versificazione), le artes
dictaminis (arte epistolare) e le artes predicandi o sermocinandi (le arti oratorie in
generale, che si occupano di sermoni e discorsi). Nel contempo ebbe il
sopravvento la grammatica, che divenne “grammatica speculativa” e iniziò ad
occuparsi delle exornationes (figure retoriche); anch'essa dovette
però cedere alla forza della dialettica, che finì per inglobarla.
Anche la classificazione delle
arti nel Trivium venne
messa in discussione, e nel XII secolo il filosofo Giovanni di
Salisbury proporrà una biforcazione la cui fortuna continua ancora oggi:
da un lato la dialettica (Filosofia),
che si occupa di oggetti astratti per mezzo di sillogismi, dall'altro la retorica
(Lettere), che invece si occupa di argomenti reali e concreti.
Umanesimo e Rinascimento
Con l'Umanesimo la
retorica fu riscoperta come disciplina autonoma dalla filosofia, tanto da
scavalcare nuovamente di importanza la dialettica. Umanisti come Lorenzo
Valla e Coluccio Salutati esaltarono la retorica in quanto mezzo
per raggiungere la verità: se si nega che la verità si riduce a uno sterile
insieme di dogmi, padroneggiare l'eloquenza risulta basilare per giungere
alla conoscenza. Inoltre, va ricordato che nel 1416 Poggio Bracciolini rinvenne
nel monastero di San Gallo (Svizzera) una copia integrale dell'Institutio oratoria di Quintiliano,
il cui impatto sulla società dell'epoca fu notevole: negli intellettuali
infatti passò l'idea che l'educazione di un uomo doveva trovare compimento
nello studio dell'eloquenza e delle lettere.
In questo periodo il maggior
esponente dell'oratoria civile fu Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II.
Nell'oratoria sacra si distinsero Bernardino da Siena, per la loquela
popolaresca, e Gerolamo Savonarola, per lo straordinario vigore.
Nel corso del Rinascimento,
un'altra scoperta però scosse gli intellettuali, quella della Poetica di Aristotele. Scarsamente
conosciuta nel Medioevo (se non in forma di compendi, per altro poco fedeli),
la Poetica fu pubblicata per
la prima volta, in traduzione latina, a Venezia nel 1498, e
successivamente tradotta in italiano da un gruppo di eruditi nel 1550. Dall'Italia,
le tesi della Poetica si propagarono in tutta Europa, e
particolarmente in Francia: il breve trattato aristotelico venne letto
come «codice della creazione letteraria», cioè come un insieme di norme e leggi
teoriche da rispettare nell'esercizio della bella scrittura.
Proprio in Francia visse e
operò in quegli anni il filosofo antiaristotelico Pierre de la Ramée (noto anche come
Petrus Ramus o Pietro Ramo), il quale teorizzò una nuova suddivisione delle artes logicae in Dialectica e Rhetorica: alla prima competono l'inventio e la dispositio, mentre alla retorica elocutio e pronunciatio (o actio). Ramus riduce così la retorica a
semplice teoria dell'elocuzione, trasformandola in una scienza delle norme
della scrittura il cui principale interesse sono le figure retoriche:
essa entra tra le discipline oggetto d'insegnamento sotto forma di scienza
dell'analisi del testo, volta a studiarne gli ornamenti.
Il Barocco
Nel XVI secolo la
retorica si ridusse a disciplina scolastica, concentrandosi sull'elocutio (la forma
dell'espressione) e la classificazione delle figure del discorso. In questi
anni ad assumere l'onere di insegnarla sono membri della neonata Compagnia
di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1540: la Ratio
Studiorum, composta da alcuni gesuiti e pubblicata nel 1586,
stabilisce infatti che l'educazione dei giovani deve fondarsi essenzialmente
sullo studio della retorica latina e della cultura umanistica in generale.
Il Barocco (e in
seguito anche il Neoclassicismo) rappresentò un periodo particolarmente
prolifico per la stesura di trattati di retorica. L'intento era volto
soprattutto ad una classificazione minuta degli elementi del discorso e in
particolare delle figure retoriche.
Perelman e la Neoretorica
Gli ultimi trattati di un certo
interesse sono precedenti al 1830: Elements of Rhetoric di Richard Whately (1828)
e Les Figures du Discours di Pierre
Fontanier (1827-30). Negli stessi anni Shopenhayer stende una
serie di appunti sull'eristica,
confluiti in parte nei Parerga e
paralipomena e pubblicati postumi. Dal Romanticismo in poi
l'importanza della retorica si è progressivamente ridotta: a pesare è in
particolare l'atto di accusa mosso da Victor Hugo e da altri in nome
di un ritorno all'oggettività e all'originalità, riassumibile nella
massima «Guerra alla retorica, pace alla sintassi». Questi
intellettuali guardavano alla retorica come arte dell'artificio, orientata alla
soggettività del pubblico da persuadere, nemica, quindi, dell'originalità,
della naturalezza e dell'oggettività che devono invece essere proprie dell'Arte e
delle sue produzioni. Simili posizioni saranno condivise da molti intellettuali
negli anni a venire, tra cui, ad esempio, Francesco De Sanctis e Benedetto
Croce. La retorica, non più materia di studio, sopravvisse comunque all'interno
della stilistica e della poetica.
Nel
corso degli anni '50 del XX secolo la retorica è però tornata al
centro di una serie molto vasta e corposa di approfondimenti, soprattutto nelle
vesti di teoria dell'argomentazione,
grazie ai lavori di Theodor Viehweg, autore di Topik und Jurisprudenz del 1953, e soprattutto di Chaim
Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca con il loro Traité de l'argumentation. La nouvelle
rhétorique del 1958. Da questi nuovi orientamenti si svilupparono
varie teorie che, partendo dagli assunti della retorica classica, la
innovarono, studiandola alla luce di tematiche legate alla sensibilità moderna,
come la semiotica, la psicoanalisi,
ma anche la musica e la pubblicità: per tutti questi studi si
parla generalmente di Neoretorica.
Il rinato interesse nei
confronti della retorica è dovuto anzitutto alla riscoperta di questa
disciplina come arte del discorso persuasivo: mentre nei secoli precedenti, da
Ramus in avanti, il suo campo si era ridotto alla sola elocutio, con Perelman essa torna ad
essere ciò che era per Aristotele, ovvero la scienza che si occupa di trovare
gli argomenti più convincenti. A partire da Cartesio, i filosofi
hanno ritenuto che il dominio della ragione dovesse limitarsi a tutto ciò che
può essere verificato, escludendo quindi il verisimile, perché né vero né
falso; Perelman, con i suoi studi, rigetta questa posizione, affermando al
contrario che la retorica risponde alle caratteristiche reali della mente umana,
la quale procede formulando giudizi sulla base di premesse non vere ma
verisimili. Da qui, l'interesse dello studioso per l'uditorio, ovvero chi
fruisce il discorso, a partire dal quale vengono stabiliti i criteri di
giudizio e studiati gli argomenti. Su questa stessa linea si colloca il
filosofo italiano Giulio Preti, che nel saggio Retorica e logica separa il campo della retorica da quello
della logica, identificandoli rispettivamente con le scienze umanistiche e le
scienze esatte.
Decisamente rivolta alla teoria
letteraria è invece la retorica generale dei sei studiosi dell'Università di Liegi, Jacques
Dubois, Francis Edeline, Jean Marie Klinkenberg, Philippe
Minguet, Francois Pire, Hadeline Trinon, i quali negli anni '60
diedero vita al Gruppo di Liegi, meglio noto come Gruppo μ(dall'iniziale della parola greca μεταφορά, metaphorá). Rifacendosi alle ricerche
linguistiche di Roman Jakobson, e in particolare al modello della
teoria dell'informazione, gli esponenti del Gruppo
μ studiarono le varie figure del discorso con particolare attenzione non
solo al loro utilizzo in poesia e letteratura, ma anche a come vengono usate
nel quotidiano: la retorica diventa scienza del discorso in senso ampio e
analizza come le figure, alterando le strutture del linguaggio generando “scarti”,
integrano il codice della lingua superandone le limitazioni e le carenze.
Con un velo di polemica verso
questa retorica generale, Gérard Genette parla al contrario
di retorica ristretta: il campo della retorica è stato ridotto nel
corso dei secoli a quello dell'elocutio e
delle figure, trasformandosi da
scienza del discorso a teoria delle
figure o teoria della metafora (quest'ultima è infatti
sopravvissuta al naufragio della retorica, trovando fortuna nella poetica). Da
qui l'auspicio di un ritorno ad una retorica che sia davvero generale, con il
conseguente sviluppo di una serie di studi, molto differenti tra di loro, che
hanno analizzato la retorica sotto vari aspetti. Intellettuali come Roland
Barthes, Umberto Eco, Christian Metz, ad esempio, hanno studiato la
retorica in riferimento alla semiotica
e alla teoria dell'immagine,
applicandola a campi come il cinema e la pubblicità; inoltre, la
retorica ha destato interesse anche per la psicoanalisi, come strumento per
interpretare i simboli dell'inconscio.
Il
sistema della retorica classica
Sin dal suo sorgere, la
retorica ha avuto come scopo quello di classificare i vari elementi che
costituiscono l'arte della persuasione, organizzandoli in un sistema. La prima
e più importante opera in cui viene portato avanti questo progetto è la Retorica di Aristotele,
che influenzò tutti i retori delle epoche successive, fino al XIX secolo. In
epoca romana il sistema aristotelico fu ripreso da Cicerone e Quintiliano,
i quali lo svilupparono ulteriormente senza però modificarlo nella sostanza.
La Rhetorica ad Herennium, il più antico trattato di retorica latino,
riprendendo e ampliando le dottrine di Aristotele e Crisippo, distingue
cinque fasi nella stesura di un'orazione, coincidenti con altrettante parti di
cui si compone il sistema della retorica:
inventio (in
greco εὕρησις,
ricerca), ricercare le idee e gli argomenti per svolgere la tesi prefissata,
rifacendosi a topòi codificati;
dispositio (in
greco τάξις, disposizione), organizzare argomenti ed ornamenti nel discorso;
elocutio (in
greco λέξις, linguaggio), l'«espressione stilistica delle idee», con la scelta
di un lessico appropriato e di artifici retorici;
memoria (in
greco μνήμη, memoria), come memorizzare il discorso e ricordare le posizioni
avversarie per controbatterle;
actio o pronunciatio (in
greco ὑπόκρισις,
recitazione), declamazione del discorso modulando la voce e ricorrendo alla
gestualità.
L'invenzione: la scoperta degli
elementi persuasivi
La parola latina inventio, corrispondente al greco εὕρησις (héuresis), significa «ricerca», «scoperta»:
il primo passo che deve compiere un retore consiste nello scoprire (e non
nell'inventare) i possibili mezzi di persuasione che gli saranno utili al fine
di far accettare le sue tesi. La parte relativa all'inventio si occupa dunque di classificare i diversi argomenti
(veri o verisimili) stabilendo quale preferire a seconda del caso; vengono
anche studiati i diversi generi di discorso, a partire dall'oggetto di cui si
occupano e la situazione in cui devono essere pronunciati.
Funzioni e princìpi del
discorso persuasivo
Anzitutto, uno sguardo
preliminare alle funzioni che deve assolvere un discorso, che vengono così
indicate da Quintiliano:
docere
et probare, ovvero informare e convincere;
delectare,
catturare l'attenzione con un discorso vivace e non noioso;
movere,
commuovere il pubblico per far sì che aderisca alla tesi dell'oratore.
Inoltre, Reboul riassume in tre
princìpi fondamentali le regole che devono essere seguite dal retore per essere
persuasivo:
Principio
di non parafrasi. Anzitutto, un discorso efficace non deve
essere parafrasabile, cioè non si deve poter sostituire i suoi enunciati
portanti con altri enunciati senza che vi sia una perdita di informazioni, o
comunque un'alterazione del senso. Questo principio, osserva Reboul, diventa
più chiaro se si prendono in esame i tropi e le figure, le quali perdono di
significato se tradotte in un'altra lingua o se si tenta di cambiarne le
parole.
Principio
di chiusura. All'impossibilità di essere parafrasato si accompagna
l'irrefutabilità del discorso. In altre parole, per un avversario deve essere
impossibile – o quasi – ribattere a quanto detto dall'oratore, a meno che
anch'egli non trovi un argomento che si colloca sul medesimo livello. Un
esempio sono le formule, come gli slogan pubblicitari, la cui forza
risiede nell'impossibilità di replicarvi, se non appunto ricorrendo a un altro
slogan.
Principio
di trasferimento. Infine, il discorso persuasivo, per essere
tale, deve avere come punto di partenza una convinzione accettata dall'uditorio
e trasferita sull'oggetto del proprio discorso. Un'opinione radicata nelle
menti di molte persone, infatti, benché relativa apparirà comunque vera agli
occhi dei più, e la sua forza aumenterà con l'aumentare degli elementi affettivi
e intellettuali a suo favore. In questo modo anche i desideri diventano in
qualche misura reali, e il retore deve essere in grado di sfruttare questa
ambiguità per persuadere chi gli sta di fronte.
I generi del discorso
La retorica classica distingue
tre generi di discorso in base al loro oggetto (causa):
Genere
giudiziario (γένος δικανικόν, genus judiciale), il primo a essere
nato, si usa nei tribunali durante i processi e il suo fine è accusare o
difendere secondo il criterio del giusto.
Genere
deliberativo (γένος συμβουλευτικόν, genus deliberativum), il genere che
si usa quando si deve parlare davanti a un’assemblea politica, quando cioè si
deve consigliare i membri della comunità secondo il criterio dell'utile.
Genere
epidittico (γένος ἐπιδεικτικόν, genus demonstrativum), il genere
inventato, secondo Aristotele, da Gorgia, viene usato quando si deve tenere un
elogio di qualcuno o comunque si deve parlare davanti a un pubblico.
Argomentazione e persuasione
Per «argomento» si intende una
proposizione atta a farne ammettere un'altra, e quindi a indurre qualcuno
ad accettare la bontà di ciò che si sta dicendo. Argomentazione e persuasione(peithò) sono dunque
collegate, ma detto ciò bisogna precisare che il rapporto non è esclusivo,
poiché si può ottenere la persuasione anche da una dimostrazione o da un atto
di seduzione. Vediamone le differenze. La dimostrazione, il cui modello
sono le scienze esatte, ha la caratteristica di essere rigorosa e oggettiva,
e quindi di mirare a conclusioni che siano inattaccabili. Decisamente
irrazionale è invece la seduzione, che mira semplicemente ad influenzare e
manipolare gli altri facendo ricorso a sentimenti e sensazioni.
Tra queste due si colloca l'argomentazione, oggetto della retorica, la quale
mira sì a persuadere facendo leva sulle passioni, ma cerca di farlo in maniera
rigorosa, attraverso un'arte. Ciò che differenzia l'argomentazione dalla
dimostrazione è il carattere non necessario degli argomenti che vengono portati
a supporto della tesi: il retore infatti si rivolge sempre a delle persone
specifiche, delle quali prende in considerazione le opinioni e le sensazioni, e
il punto di partenza del suo discorso sono premesse non evidenti ma verisimili
(eikota) che portano a conclusioni
relative e confutabili. Inoltre, nell'argomentazione il nesso logico tra gli
elementi che la compongono non è rigoroso, e la sua validità è valutata in base
all'efficacia.
Mentre lo scienziato, dunque,
sostiene la propria teoria ricorrendo a dati oggettivi presentanti per mezzo di
un linguaggio simbolico, il retore cerca di persuadere gli altri attraverso le
parole e il linguaggio naturale, trovando e ordinando i possibili elementi di
persuasione. A questo scopo, il retore deve tener presenti non solo gli aspetti
razionali, ma anche quelli emotivi ed etici. Oltre al discorso (logos) in sé e per sé, che persuade
attraverso prove vere o apparentemente tali, a ricoprire un ruolo importante è
il carattere (ethos) dell'oratore,
che deve saper dimostrare di essere attendibile e di conoscere a fondo
l'oggetto di cui sta trattando, così da accattivarsi la fiducia del pubblico;
inoltre, è importante saper suscitare emozioni (πάθη) dispiacere o dolore negli
ascoltatori, poiché i sentimenti influenzano inevitabilmente la capacità di
giudizio del pubblico.
Prove tecniche e extra tecniche
Le prove da portare a favore
della tesi vengono suddivise da Aristotele in tecniche (o prove nella tecnica) e extra tecniche (o prove fuori-tecnica). Le prove extra tecniche (πίστεις ἄτεχνοι)
sono quelle che non dipendono direttamente dal retore, ma sono comunque a sua
disposizione, come le confessioni degli imputati, i testi scritti,
le leggi, le sentenze precedenti, le testimonianze e via
dicendo. Le prove tecniche (πίστεις ἔντεχνοι),
al contrario, sono quelle fornite al retore dall'esercizio della sua
arte. Queste ultime possono essere di due specie:
esempio o exemplum (παράδειγμα),
ovvero l'induzione retorica. L'esempio consiste nel ricorrere ad un
fatto particolare, reale o inventato (ma sempre verisimile), che abbia affinità
con l'oggetto dell'orazione, per poi generalizzarlo tramite induzione e
giungere infine a conclusioni la cui validità è solo particolare. A questo tipo
di prove sono ricollegabili l'argomento d'autorità, il modello, il precedente
giuridico;
entimema (ἐνθυμήμα),
ovvero la deduzione retorica.
Si tratta di un sillogismo basato su
premesse non vere ma verisimili (il verisimile ammette dei contrari), spesso
riprese da opinioni diffuse (in certi casi la premessa maggiore può anche
essere taciuta). Le premesse a loro volta possono essere di tre tipi:
gli
indizi sicuri (τεκμήρια), che possono essere verificati dai
nostri sensi e sono quindi necessariamente veri e incontrovertibili (in questo
caso l'entimema può coincidere con un
sillogismo);
i
fatti verisimili (εἰκότα), che vengono accettati
dalla maggior parte delle persone perché stabiliti da una legge o dalla morale comune;
i
segni (σημεῖα), una cosa che può indurre a farne intendere
un'altra: per esempio la presenza del sangue può richiamare alla mente un omicidio,
anche se l'associazione non è necessaria (il sangue può essere stato versato
per una semplice epistassi).
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