venerdì 24 aprile 2015

23 - L'ORGANIZZAZIONE E LA STRUTTURA DEI TESTI PROFESSIONALI

L’organizzazione e la struttura dei testi professionali

I testi professionali devono fornire informazioni e - eventualmente - argomenti in un ordine razionale: essi presentano, cioè, i dati secondo una logica riconoscibile e segmentandoli in maniera accurata: capoversi, paragrafi, capitoli, sezioni, volumi corrispondono ad altrettante unità di contenuto e di comunicazione, e non sono indotte nel continuum testuale arbitrariamente.
È indispensabile, a questo proposito, individuare una logica di presentazione efficace (spaziale, cronologica, causale…) e fare in modo che il testo venga suddiviso in porzioni corrispondenti al suo contenuto: vi saranno, dunque, capitoli, che a loro volta verranno articolati in paragrafi, che a loro volta saranno ripartiti in capoversi, identificati secondo la medesima logica comunicativo-contenutistica.

La titolazione
Un ruolo importante nella strutturazione di un documento ha la titolazione. Per quanto non esistano ricette che garantiscano il successo, è relativamente semplice identificare alcuni criteri di massima che facilitano la creazione di titoli quantomeno accettabili; essi sono (1) l'informatività; (2) la specificità; (3) la chiarezza.
Il titolo di un testo professionale deve essere informativo, nel senso che deve fornire al lettore indicazioni in merito al suo contenuto, e cioè all'argomento oggetto di trattazione; deve essere preciso, cioè sufficiente a fargli comprendere quale aspetto dell'argomento vi venga preso in considerazione ed a quale fine.

La preparazione dell'abstract
L'abstract (o riassunto di presentazione) è un complemento sempre più diffuso all'interno dei documenti professionali. Esso è in genere rappresentato da un testo di poche cartelle in cui si presentano, in estrema sintesi, la natura, gli obiettivi, i risultati e le prospettive di sviluppo della ricerca intrapresa; lo si premette ai testi di una certa estensione (dalle 15 pagine in su) in modo che i lettori cui essi sono destinati possano farsi un'idea del loro contenuto e decidano se leggerli ed, eventualmente, quali sezioni leggerne.
Si distinguono in genere abstract descrittivi (o strutturali) ed informativi (o sostanziali, o contenutistici: la nomenclatura usata è piuttosto variabile). I primi si limitano a presentare un quadro dell'argomento o degli argomenti affrontati nel testo; i secondi forniscono invece informazioni precise anche sul contenuto del testo, e sono per questo in genere più lunghi e complessi - ma anche più utili ed informativamente più ricchi.

Si tenga presente che l'abstract è un documento a se stante e che, in quanto tale, deve essere dotato di indipendenza e di compiutezza: non deve prevedere la lettura di alcuna parte del documento che riassume, neppure del glossario o delle tavole. Termini specialistici o utilizzati in accezioni particolari dovranno, quindi, essere spiegati contestualmente o - se possibile - evitati; ai dati di tabelle o grafi si potrà fare cenno solo cursoriamente e per quanto necessario alla comprensione del contenuto generale del testo: i dettagli esplicativi saranno invece riservati al documento vero e proprio. Se è strettamente necessario visualizzare tabelle o altri complementi grafici, li si dovrà ripetere.
La preparazione del sommario

In un testo professionale il sommario costituisce un valido supplemento all'abstract, perché raggruppa e presenta in formato di lista i titoli di tutti i capitoli ed i sottocapitoli del documento. In linea di massima si suggerisce di elencare - utilizzando caratteri che permettano di distinguere a prima vista la gerarchia dei componenti - tutti i titoli sino al terzo livello, omettendo, se sono presenti, sottopartizioni di livelli inferiori. Alcuni scriventi, tuttavia, preferiscono riportare tutti i titoli, anche a rischio di generare liste molto lunghe e complesse: è una scelta la cui opportunità deve essere valutata di volta in volta, in base a criteri di funzionalità

La scrittura della premessa
La Premessa costituisce un elemento del paratesto, e non del testo vero e proprio: ad essa, quindi - se presente - si dovrebbero affidare solo informazioni di contorno (per esempio, indicazioni sulle ragioni che hanno spinto ad intraprendere lo studio o chiarimenti in merito alla sua collocazione all'interno di progetti più ampi); le indicazioni più strettamente pertinenti al testo (quelle relative alle sue finalità, ai metodi, alla struttura…), invece, dovranno invece essere spostate nell'Introduzione, che ne costituisce invece la prima parte.

La stesura dell'Introduzione
Al contrario della Premessa, l'Introduzione pone il lettore entro il documento. In generale, l'introduzione di un documento professionale  risponde a quattro fini fondamentali:
indicare la natura del testo;
chiarire la sua funzione;
precisare quali siano le conoscenze presupposte ai fini della sua comprensione ed eventualmente - valutate le caratteristiche del proprio uditorio - fornire informazioni di supporto;
evidenziare quale sia la sua struttura.
In particolare, per quanto attiene al punto a., si dovrebbero chiarire, nell'Introduzione, quali siano l'estensione ed i limiti del documento: quali, cioè, gli argomenti trattati, quale l'ottica in cui essi sono presi in considerazione, quale la prospettiva adottata nella trattazione (si potranno anche indicare, naturalmente, quali siano gli argomenti che non si sono presi in considerazione, le variabili che non si sono tenute in conto, i quadri problematici che si sono ignorati).
Per quanto concerne il punto b., si dovrebbero precisare nel segmento introduttivo del documento non solo le finalità per cui il testo è stato realizzato, ma anche le ragioni che fanno di esso un contributo utile alla comunità degli intellettuali; se possibile - soprattutto in ambito tecnico - è buona norma mettere in evidenza anche potenziali vantaggi pratici che derivino dall'uso dei dati raccolti nello scritto o dall'implementazione dei suggerimenti che esso fornisce.
Quanto poi il punto c., sarebbe utile fornire, in una sezione dell'Introduzione, le notizie di fondo che appaiono funzionali a rendere più facile e completa, al proprio uditorio, la comprensione del testo: è ovvio che la quantità di informazioni deve essere tanto più ampia quanto più settoriale è il testo e quanto meno specialistico è il suo destinatario primario.
In merito, infine, al punto .d, ci si dovrebbe preoccupare di chiarire sempre, secondo modalità variabili, quali siano l'articolazione e la struttura del documento, costruendone una sorta di "mappa" che guidi il lettore nella sua interpretazione.

L'articolazione in sezioni
Dove si dovrebbero operare i tagli in un testo scientifico? Non è facile dare una risposta che non rischi di essere generica: un suggerimento sempre valido è quello di considerare il brano che si vorrebbe trasformare in una unità formale (sezione, capitolo, paragrafo, capoverso) verificando che esso coincida effettivamente con un'unità di informazione, chiaramente distinta da quelle che lo precedono e lo seguono, per quanto ad esse collegato.
Si verifichi anche che tale unità, se più ampia di un capoverso, possa essere titolata: il fatto di poter dare un titolo informativo ad una porzione di testo indica che essa si diffonde su un argomento preciso; il fatto contrario, invece, suggerisce, di norma, che il segmento testuale non è sufficientemente indipendente e che deve essere, per questo, accorpato a quello che lo precede o a quello che lo segue.
Nel caso di un capoverso, l'applicazione di un titolo può sembrare pretestuosa: può essere allora più utile tentare di identificarne la frase guida  o topic sentence, che dovrebbe esprimere il nucleo informativo del capoverso: se essa è presente ed è facilmente individuabile, quello che si sta analizzando è un paragrafo ben formato, altrimenti dovrà essere rivisto e completato.

La scrittura delle conclusioni
La conclusione di un testo tecnico-scientifico e professionale contiene, di norma, (a) la presentazione delle conclusioni cui ha condotto la propria indagine; (b) una loro analisi e(c), se ciò ha un senso, la proposta di un loro sviluppo applicativo o teoretico.

Le appendici documentarie ed iconografiche e gli allegati
L'allestimento di una o più appendici documentarie risponde, in generale a differenti esigenze: quella di offrire informazioni dettagliate, che non possono essere incluse nel corpo del testo perché troppo ampie o perché, comunque, tali da interrompere il flusso testuale; quella di fornire informazioni utili soprattutto all'uditorio secondario; quella di arricchire la propria documentazione con materiale interessante ma di interesse collaterale e, quindi, non collocabile entro il nucleo testuale principale.
A fini analoghi rispondono le appendici iconografiche; si aggiunga che, in alcuni casi, la scelta di collocare in appendice il materiale iconografico è reso necessario dalla gestione del documento: se, infatti, la collocazione di figure, diagrammi e grafici in prossimità del testo che vi fa riferimento è senz'altro la soluzione comunicativamente più efficace, quando l'apparato sia particolarmente esteso o quando le illustrazioni siano molto voluminose, essa non è praticabile. Non resta, dunque, in questi casi, che inserire le immagini indispensabili nel corpo del testo e rinviare al resto della documentazione in appendice.
Si ricordi che le appendici devono essere numerate in sequenza (Appendice 1, Appendice 2 ecc. oppure Appendice A, Appendice B ecc.) e portare un titolo esplicativo (Appendice1: testi e documenti su significato e referenza nella filosofia del linguaggio; Appendice 2: diagramma di flusso per l'allestimento di un sito Web, dalla progettazione alla messa in linea; Appendice A: testo del protocollo di intesa per la realizzazione del progetto Alfa-gammatronics).




venerdì 17 aprile 2015

22 - Un esempio di scrittura paratattica: A. Campanile, La quercia del Tasso

LA QUERCIA DEL TASSO  di A. Campanile

Quell'antico tronco d'albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand'essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da essa, c'era, ai tempi del grande e infelice poeta, un'altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la "t" maiuscola e della quercia del tasso con la "t" minuscola. In verità c'era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall'altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano "il tasso del Tasso"; e l'albero era detto "la quercia del tasso del Tasso" da alcuni, e "la quercia del Tasso del tasso" da altri.
Siccome c'era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch'egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: "È il Tasso dell'olmo o il Tasso della quercia?".
Così poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?".
"Della quercia del Tasso."
E dell'animaletto di cui sopra, ch'era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: "il tasso del Tasso della quercia del Tasso".
Poi c'era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s'era dedicata al poeta e perciò era detta "la guercia del Tasso della quercia", per distinguerla da un'altra guercia che s'era dedicata al Tasso dell'olmo (perché c'era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: "la quercia della guercia del Tasso"; mentre quella del Tasso era detta: "la quercia del Tasso della guercia": qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
E lo chiamarono: "il tasso della quercia della guercia del Tasso", mentre l'albero era detto: "la quercia del tasso della guercia del Tasso" e lei: "la guercia del Tasso della quercia del tasso".
Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: "il tasso del Tasso".
Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l'animaletto venne indicato come: "il tasso del tasso del Tasso".
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all'ombra d'un tasso perché non ce n'erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: "il tasso barbasso del Tasso"; e Bernardo fu chiamato: "il Tasso del tasso barbasso", per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell'animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.

Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

20 - Un esempio di scrittura ipotattica: E. Ionesco, La cantatrice calva, Il raffreddore

IL RAFFREDDORE

Mio cognato, dal lato paterno aveva un cugino germano, lo zio materno del quale aveva un suocero il cui nonno paterno aveva sposato in seconde nozze una giovane indigena, il cui fratello, nei suoi viaggi, aveva incontrato una ragazza della quale si era innamorato e dalla quale aveva avuto un figlio che sposò poi un’intrepida farmacista, la quale altro non era che la nipote di uno sconosciuto quartiermastro della Marina Britannica, il di cui padre adottivo aveva una zia in grado di parlare correttamente lo spagnolo e che era, forse, una delle nipoti di un ingegnere morto in giovane età, nipote a sua volta di un proprietario di vigne dalle quali si ricavava un vino assai mediocre, ma che aveva un cugino, casalingo e sottotenente, il cui figlio aveva sposato una graziosissima signora, un po’ divorziata, il primo marito della quale era figlio di un vero patriota che aveva saputo educare una delle proprie figlie nell’ambizione di fare fortuna, la quale era riuscita a sposare un fattorino che aveva conosciuto Rothschild e il cui fratello, dopo aver cambiato parecchi mestieri, si sposò ed ebbe una figlia, il cui bisnonno, gracilino, portava gli occhiali che gli aveva regalati un suo cugino, cognato di un portoghese, figlio naturale di un mugnaio, non troppo povero, il fratello di latte del quale aveva preso in moglie la figlia di un medico di campagna, a sua volta fratello di latte di un lattaio, a sua volta figlio naturale di un altro medico di campagna, sposato tre volte di seguito, e di cui la terza moglie era la figlia della migliore levatrice della regione e che, vedova di buonora, come mia moglie, si era sposata con un vetraio pieno di zelo, il quale, alla figlia di un capostazione, aveva fatto un figlio destinato a fare la sua strada, ferrata, come la mazza, e aveva sposato una venditrice di spazzature, il cui padre aveva un fratello, sindaco di una piccola città, che aveva preso in moglie una maestra bionda, il cugino della quale, pescatore con la rete, ferroviaria, aveva preso in moglie un’altra maestra bionda, chiamata Maria, il cui fratello aveva sposato un’altra Maria, anche lei maestra bionda, il cui padre era stato allevato nel Canada da una vecchia, che era nipote di un parroco, la nonna del quale, talvolta, d’inverno, come capita a tutti, si buscava un raffreddore.



da LA CANTATRICE CALVA di E. Ionesco

21 - LA PARATASSI

paratassi

1. Definizione e delimitazione
La paratassi è una connessione ordinata di frasi in un’entità superiore, in cui le frasi interessate hanno diverso valore informativo e sono collegate tra loro da nessi semantici. Insieme alla subordinazione e alla coordinazione, la paratassi è una delle principali forme di collegamento tra elementi linguistici.
Il termine paratassi (dalla preposizione gr. pará «presso, vicino» e il nome táxis «disposizione, ordine»), formato sul modello di sintassi, fu coniato nel 1826 dal grecista F.W. Thiersch insieme col termine complementare ipotassi (dalla preposizione gr. ypó «sotto»). Il significato originario allude all’‘accostamento’ di unità linguistiche di livello equivalente, come invece è proprio delle relazioni ipotattiche.
Va segnalato che la coppia terminologica paratassi-ipotassi non è entrata nella tradizione grammaticale italiana. Per es., non se ne trova menzione nella Sintassi italiana di Fornaciari (1881: 416-429), che prevedeva solo il coordinamento e ilsubordinamento come possibili tipi di relazione tra le frasi. La coppia è per lo più impiegata come sinonimo di coordinazione e subordinazione, a base latina (Serianni 1988: 447-50; Devoto & Oli 1971: 1621; Beccaria 20042: 418), e viene usata soprattutto in relazione allo studio delle lingue classiche.
Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI la paratassi è stata al centro di un esteso dibattito (Avanzi, Beguelin & Corminboeuf 2010), innescato da nuove prospettive teoriche, come gli studi di grammatica testuale, di analisi del discorso e più in generale della linguistica dei corpora. Molti fenomeni, anche molto diversi tra di loro, sono stati quindi considerati paratattici; tra questi, la giustapposizione, in particolare le apposizioni, i complementi predicativi, gli anacoluti e perfino le strutture correlative.
L’esistenza di relazioni paratattiche è stata discussa in particolare tra le questioni generali concernenti l’origine delle lingue indoeuropee. È stata ipotizzata un’anteriorità diacronica delle costruzioni paratattiche e correlative rispetto a quelle subordinative e ipotattiche, che sarebbero da esse derivate. È stato osservato però che ogni lingua, in particolare se giunta alla modalità scritta, possiede già nei suoi stadi antichi sia costruzioni ipotattiche che paratattiche.
2. Coordinazione, subordinazione e paratassi
Solitamente identificata con la coordinazione, la paratassi ne va invece accuratamente distinta; un’altra distinzione va fatta rispetto alla subordinazione.
2.1 Coordinazione e paratassi
Una struttura coordinata ha essenzialmente i caratteri seguenti:
(a) all’interno di una frase si moltiplicano, nel caso di enumerazioni, o si duplicano costituenti di uguale rango;
(b) si instaurano relazioni copulative, avversative o alternative, mediante congiunzioni (sindesi) o senza (asindesi); la coordinazione, quindi, può interessare costituenti di qualsiasi livello: parole, sintagmi, frasi. Questi fenomeni si osservano negli esempi seguenti:
(1) la ragazza era bella e stupida → la ragazza era bella, superficiale, (e) stupida
(2) Mario e Carlo studiano medicina → Mario, Carlo, (e) Luigi studiano medicina
(3) Mario ha eseguito il lavoro con competenza e con passione → Mario ha eseguito il lavoro con competenza, con passione, (e) con fatica
(4) Mario frequenta il Conservatorio e si sta specializzando in violino → Mario frequenta il Conservatorio, si sta specializzando in violino, (e) studia composizione
La coordinazione richiede che i costituenti coordinati abbiano la stessa funzione e facciano parte della stessa configurazione sintattica. Da un punto di vista semantico, essi partecipano alla composizione del significato della frase e al conseguimento del suo valore di verità, avendo tutti la stessa modalità (Bally 1971: 65-78). Inoltre, l’ordine degli elementi di una coordinazione non dovrebbe essere rilevante; esso non è un carattere necessario per il realizzarsi di una relazione semantica (condizionale, concessiva, ecc.), come invece accade in una relazione paratattica.
Dal canto suo, una relazione paratattica non contiene costituenti di qualsiasi livello, ma solo frasi, o comunque (come si vedrà sotto a proposito del parlato) entità predicative (Le Goffic 1993: 501-502; López García 1999: 3513; Quirk et al. 199915: 918-919). Le frasi in relazione paratattica non sono la duplicazione di un costituente in una stessa configurazione sintattica, ma ciascuna è una configurazione sintattica autonoma.
Da un punto di vista semantico, inoltre, ciascuna frase in relazione paratattica ha una propria modalità. Questo fatto può essere illustrato da un insieme di caratteri, che si presentano in mescolanze varie. Tra i principali, le frasi in relazione di paratassi possono:
(a) avere diverso soggetto;
(b) appartenere a tipi diversi (frase dichiarativa, interrogativa, imperativa, ottativa, esclamativa);
(c) avere predicati dalla semantica diversa (verbo di stato, di azione, di percezione, di parola, di giudizio);
(d) avere diversa qualità (frase nominale, verbale, positiva, negativa, di citazione, di discorso riportato);
(e) variare per caratteristiche di diatesi e aspetto;
(f) avere diverse coordinate deittiche[1].
L’ordine degli elementi, poi, è una condizione necessaria al compimento dell’effetto semantico complessivo. Inoltre, nel parlato le entità linguistiche paratattiche devono essere scandite da unità prosodiche diverse.
In conclusione: mentre le unità coordinate, o in enumerazione, possono essere di qualsiasi livello linguistico, ma devono essere omogenee per funzione sintattica e caratteristiche modali e il loro ordine non è un tratto necessario, le unità in paratassi possono essere solo frasi, devono essere distinte per modalità e devono essere ‘accostate’ secondo un ordine perché possa aversi un certo effetto semantico. Quindi il loro accostamento non produce tanto un’aggiunta d’informazione quanto una connessione semantica di livello testuale.
2.2 Paratassi e subordinazione
Per taluni aspetti la connessione coordinativa e paratattica ha delle affinità con la subordinazione, e la scelta dell’una o dell’altra risalirebbe all’intenzione del parlante di potenziare o indebolire la tensione emotiva, riducendosi ad una dimensione stilistica. Infatti, la maggior parte delle relazioni di subordinazione può essere tradotta in coordinazione, e viceversa, facendo sì che esse siano interscambiabili e quindi differenziate in modo instabile.Già Fornaciari (1881: 426), uno dei primi espliciti sostenitori dell’ipotesi dell’equivalenza, opera un confronto tra periodi con relazioni di subordinazione e i loro equivalenti ‘trasformati’ con relazioni di coordinazione:
(5) poiché hai disprezzato i miei consigli, io ti abbandono → hai disprezzato i miei consigli e io ti abbandono
(6) la virtù è così bella, che l’amano perfino i malvagi ~ anche i malvagi amano la virtù: tanto essa è bella
Si noti come in (5) la seconda frase ‘trasformata’ sia connessa alla prima da e, una congiunzione coordinante ma anche rafforzativa. In (6), poi, l’autore ha sentito la necessità di invertire l’ordine delle frasi e di connetterle con un segno interpuntivo peculiare (i due punti), al fine di realizzare un effetto esplicativo. In realtà proprio le seconde frasi delle coppie (5) e (6), presentate da Fornaciari come casi di coordinazione, potrebbero essere considerate casi di paratassi, i quali in effetti meglio convogliano l’impatto emotivo delle versioni con la struttura di subordinazione.
3. Proprietà della paratassi
È quindi giustificato chiedersi se le relazioni paratattiche siano davvero diverse da quelle di coordinazione e subordinazione e quali caratteristiche abbiano. Può aiutare nel compito l’esame di alcuni esempi del latino, in cui la paratassi si manifesta in varie forme (esempi tratti da Orlandini & Poccetti 2010):
(7) filiam quis habet, pecunia est opus (Cicerone, Rhet. 44)
«figlia chi ha, soldi c’è bisogno» [= «qualcuno (chi) ha una figlia, (per lui) i soldi sono necessari»]
(8) ostende bellum, pacem habebis «mostra la guerra, la pace avrai» [= «fa’ mostra di guerra, avrai la pace»]
(9) vix ea fatus eram, tremere omnia visa repente (Virgilio, En. III, 90)
«appena quelle cose detto avevo, tremare tutto fu visto d’un tratto» [= «avevo appena detto ciò, (che) all’improvviso tutto sembra tremare»]
(10) video meliora proboque, deteriora sequor (Ovidio, Met. VII, 20)
«vedo il meglio e approvo, il peggio seguo» [= «vedo le cose migliori e le approvo, seguo le peggiori»]
(11) fremant omnes licet, dicam quod sentio (Cicerone, De Orat. I,195)
«fremano tutti è lecito, dirò quel che penso» [= «che tutti protestino è lecito, (comunque è lecito anche) che io dica ciò che penso»]
(12) ne sit sane summum malum dolor, malum certe est (Cicerone, Tusc. II, 14)
«non sia certo sommo male il dolore, male certo è» [= «che non sia sicuramente il dolore il male sommo, (ma) certamente è male»]
In tutti questi esempi si ha la sequenza di due frasi, che si trovano sullo stesso piano sintattico e sono accostate in uno stesso periodo senza congiunzioni (diversamente dai casi di coordinazione sindetica e di subordinazione esplicita). È dal punto di vista dell’organizzazione dell’informazione che le due unità non hanno ugual valore; benché ciascuna abbia senso a sé, solo la presenza della seconda frase produce l’effetto complessivo dell’intero periodo. L’accostamento delle due frasi infatti può dare espressione a significati diversi: in (7) e (8) la relazione è condizionale ipotetica (periodo ipotetico), (9) mostra una relazione di contemporaneità (temporalità, espressione della), in (10) è sviluppato un valore contrastivo, in (11) e (12) tramite l’espressione è lecito e l’avverbio certamente viene evocata una relazione concessiva.Il valore semantico della sequenza paratattica si definisce nel contesto e non è predeterminato linguisticamente.
In connessione a ciò si può notare che la sequenza delle frasi ha però ordine fisso: esse non possono essere invertite, pena il mancato effetto semantico. Da un punto di vista informativo, quindi, la prima frase ha funzione di tema (o di sfondo; tematica, struttura), la seconda costituisce il centro dell’informazione dato che indica i possibili nessi semantici: condizionali, temporali, contrastivi, concessivi. Va notato che se gli esempi fossero di lingua parlata, ciascuna frase dovrebbe avere un’apposita unità prosodica, la prima separata dalla seconda da ciò che tradizionalmente si indica come pausa virtuale.
Già dalle traduzioni degli esempi latini è facile dedurre che anche in italiano sono possibili, e anche frequenti, costrutti simili, e quindi anche per l’italiano appare congruo ipotizzare che la paratassi vada distinta dalla coordinazione. Gli esempi da (13) a (17) potrebbero valere come modelli paratattici produttivi per l’italiano:
(13) studia, sarai promosso
(14) si lamenta, tutti si mettono a disposizione
(15) parto, (che) ti piaccia o no
(16) ha un bel provarci, non ci riesce
(17) fosse pure la mia ultima occasione, tenterò
Questi esempi condividono tutte le caratteristiche già esposte per il latino, riproducendo relazioni condizionali (13), contrastive (14) e concessive (15-17).

4. La paratassi nell’uso parlato
Tutti gli esempi fattibili di come paratassi nel parlato potrebbero essere connessi al loro interno da un’espressione avverbiale (e, ma, ed ecco, perciò,quindi). Parallelamente, però, qualsiasi connettivo potrebbe anche essere soppresso, senza con ciò causare la perdita della relazione paratattica. Dunque, se i connettivi sono ammissibili e appropriati in una relazione paratattica, essi sono però opzionali, perché servono solo a esplicitare o rafforzare il nesso semantico che in ogni caso la connessione ordinata delle due unità realizzerebbe.
Un’altra caratteristica del parlato italiano è che uno o entrambi gli enunciati della relazione paratattica possono non essere né frasi né sintagmi verbali, ma sintagmi nominali o aggettivali, come in (20), (23), (24), (26). Ciò nonostante essi hanno piena funzione predicativa e svolgono in maniera appropriata il ruolo di una delle entità in relazione paratattica. Questa possibilità è tipica del parlato, nel quale una qualsiasi espressione, purché dotata di intonazione appropriata, può svolgere un atto linguistico e quindi essere pienamente predicativa.
Il ricorso a frasi nominali, del resto, è comune in massime e  proverbi, condivisi da tutte le lingue romanze e germaniche. Spesso essi sono fondati proprio sulla connessione ordinata, ovvero sulla paratassi, di due frasi nominali, di cui la prima serve da premessa o sfondo a una seconda conclusiva, come si vede dai seguenti esempi inglesi:
(27) no work, no money «niente lavoro, niente soldi»
(28) out of sight, out of mind «lontano dagli occhi, lontano dal cuore»
Le due frasi nominali, in relazione paratattica, possono naturalmente essere legate da un connettivo come quindi o perciò. Questa caratteristica consente di fare un confronto con le frasi nominali semplici, spesso annoverate tra i casi di paratassi. Vediamo un proverbio (29) e una frase nominale di uso quotidiano (30):
(29) dalla padella nella brace
(30) giovedì gnocchi
Si deve notare che nessun connettivo (e, ma, perciò, quindi) potrebbe essere inserito in (29) e (30). Ciascuna delle due parti della frase nominale non è a sua volta una frase nominale e non è di per sé interpretabile, sicché tra le due parti non si può sviluppare nessuno degli effetti semantici propri della paratassi. La loro combinazione realizza semplicemente una predicazione nominale.
Gli esempi fin qui notati – per il latino, l’italiano parlato e l’inglese – possono essere considerati come un repertorio abbastanza ampio dei modelli paratattici, condiviso dalla gran parte delle lingue romanze e di quelle germaniche (Jespersen 1924; Matthews 1981; Le Goffic 1993; Quirk et al. 199915, López García 1999).
5. La paratassi nell’uso scritto
I fenomeni paratattici fin qui presentati ricorrono anche nella lingua scritta e sono attestati in maniera sistematica nelle recenti opere letterarie italiane, anche se identificarli può esser meno semplice che nel parlato. Riportiamo vari esempi tratti da autori della seconda metà del XX secolo e degli inizi del XXI:
(31) È vero che lavora mio padre; e vorreste non godesse qualche lira delle venti facendo il fiasco all’osteria? (Vasco Pratolini, Il Quartiere, Milano 1968, p. 46)
(32) Entrò come un’ombra, e seppi di averlo davanti al tavolino prima ancora di levare gli occhi (Cesare Pavese, La spiaggia, Torino 1968, p. 138)
(33) Mai le donne l’avrebbero salvata: e le mancava l’uomo (Italo Calvino,L’avventura di un bagnante, Torino 1970, p. 1080)
(34) Tutto il resto […] ora tace, questi in fila e in piedi, […] quelli finalmente sciolti dalle corazze, […] eccoli già lì che russano (Calvino, Il cavaliere inesistente, Torino 1973, p. 14)
(35) Quelli sposati non si occupavano più di nulla: lo vedeva col cognato (Carlo Cassola, Ferrovia locale, Torino 1982, p. 7)
(36) il prete e una coppia di professori a riposo […] sono morti e altre tre persone sono rimaste ferite, e avrebbe potuto essere peggio se non fosse stato sabato pomeriggio con anche il sole (Andrea De Carlo, Uto, Milano 1995, p. 10)
(37) Non so niente, che cosa è la rottura delle acque? (Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Milano 2000, p. 16)
(38) L’unica pietà l’ho ricevuta dagli infedeli, Dio li ricompensi evitando di dannarli come meriterebbero (Umberto Eco, Baudolino, Milano 2000, p. 493)
(39) Chiedeva, infatti, il signor Roccella, del questore: una follia, specialmente a quell’ora e in quella particolare serata (Leonardo Sciascia, Una storia semplice, Milano 2001, p. 12)
(40) Naturalmente non accadde nulla, Dio non si scomoda per un uomo ridicolo (Margaret Mazzantini, Non ti muovere, Milano 2001, p. 217)
(41) Sono stanco ma non ho finito, lasciami riposare un po’ ma non te ne andare, resta, apri bene le orecchie, perché è importante (Antonio Tabucchi, Tristano muore, Milano 2004, p. 90)
La sequenza delle unità predicative, indipendentemente dal fatto che alcune non siano verbali (come in 34 e 39) e dal loro numero (come in 34, 36 e 41), ha ordine fisso, pena il non raggiungimento di un significato o effetto complessivo di varia natura semantica, che può essere apprezzato solo nell’intero periodo. Ed è proprio per via della loro indipendenza e del loro ordine che le frasi paratattiche possono sviluppare forme peculiari di testo, a volte non facilmente definibili, sottili e vaghe, ma certo stilisticamente significative.
Possiamo notare che anche negli esempi da (31) a (41) si ha una connessione entro uno stesso periodo, graficamente identificato da segni interpuntivi forti, di due o più unità predicative o frasi chiaramente differenziate per modalità. Le unità si trovano sullo stesso piano sintattico, ciascuna è identificata da segni interpuntivi deboli (virgola, punto e virgola, due punti), accompagnati o no da connettivi (come in 31, 32, 33, 36, 41). La diversificazione modale delle unità frasali è ottenuta sfruttando l’insieme di quei tratti che, come notato, possono concorrere all’assegnazione del valore modale.

 Emanuela Cresti
da Enciclopedia dell'Italiano (2011)


http://www.treccani.it/enciclopedia/paratassi_(Enciclopedia_dell'Italiano)/


[1] Deittico: di elemento, espressione che si riferisce alle coordinate spazio-temporali o ai protagonisti di un enunciato (p.e. là, ora, il mese scorso, io, tuo)

19 - L'IPOTASSI

IPOTASSI

L’ipotassi (o subordinazione; dal greco hypotàxis ‘dipendenza’) è il rapporto sintattico che si stabilisce tra due proposizioni collegate nel testo in maniera gerarchica, in modo che l’una – chiamata proposizione subordinata (o anche secondaria) – risulti dipendente logicamente e grammaticalmente dall’altra, che può essere autonoma (ed è chiamata allora proposizione principale) o a sua volta subordinata (ed è chiamata allora reggente o sovraordinata).
Questo rapporto di dipendenza può essere introdotto in vari modi.
• Tramite congiunzioni subordinative e preposizioni di vario genere
Quando arriverà, sarà tutto diverso
Arrivò per risolvere la situazione
• Con pronomi e avverbi subordinanti di vario tipo (che svolgono funzione di congiunzione)
Mi chiedo cosa resterà
Non so chi sia
Una proposizione subordinata a sua volta può diventare reggente e introdurre un’altra proposizione subordinata (di III grado) e così via, creando un collegamento logico e sintattico che dà coesione al testo
Arrivò a casa per rimproverare Luigi, che si era ammalato quando era uscito per andare a comprare il giornale
Arrivò a casa = proposizione principale, reggente della proposizione secondaria di I grado
per rimproverare Luigi = proposizione secondaria di I grado, reggente della proposizione secondaria di II grado
che si era ammalato = proposizione secondaria di II grado, reggente della proposizione secondaria di III grado
quando era uscito = proposizione secondaria di III grado, reggente della proposizione secondaria di IV grado
per andare a comprare il giornale = proposizione secondaria di IV grado
Inoltre, i modi e i tempi del verbo della proposizione dipendente sono regolati in base a quelli della reggente, secondo le leggi della cosiddetta consecutio temporum.
In alcuni casi lo stesso rapporto logico reso con l’ipotassi può essere espresso con la paratassi (o coordinazione)
Poiché ha lavorato molto, è stanco (subordinata causale e proposizione principale
È stanco, infatti ha lavorato molto (principale e coordinata esplicativa)  
Ha lavorato molto, ed è stanco (principale e coordinata copulativa).



venerdì 10 aprile 2015

20 - LA RETORICA (parte seconda)

I luoghi (topoi)
Con il termine «luogo» (in greco τόπος, tópos, in latino locus) in retorica si intende un argomento ricorrente, organizzato in forme convenzionali e stereotipate a uso e consumo del retore. Il topos, nella sua convenzionalità, è infatti immediatamente riconoscibile da parte dell'uditore, e permette al retore di disporre di un elemento di sicuro effetto da utilizzare nelle orazioni. La teoria dei topoi, detta appunto topica, si deve quasi integralmente ad Aristotele, che ne trattò nei Topici e poi nel Libro II della Retorica come forma di argomentazione dialettica. Generalmente, se ne distinguono due tipi: comuni e propri.
I luoghi comuni (τόποι κοινόι) partono da punti di vista generali, opinioni accettate dalla maggior parte degli individui, che appunto in quanto generali valgono per quasi tutti gli argomenti. Aristotele ne classifica 3 tipi: possibile/impossibile, reale/non reale, più/meno.
I luoghi propriδος), invece, sono specifici e variano a seconda del pubblico, della disciplina e del tipo di discorso. Si tratta di proposizioni particolari, legati alla pratica di ciascuna determinata disciplina, la cui validità viene però riconosciuta da tutti.

La disposizione: la struttura del discorso
La seconda parte del sistema della retorica riguarda la dispositio (in greco τάξις, taxis, oppure οκονομία, oikonomía), cioè l'organizzazione del discorso: le parti di cui si compone il discorso, l'ordine in cui presentare i contenuti e le idee, l'ordine delle parole per presentare gli argomenti.
Con particolare attenzione alla retorica giudiziaria, la retorica classica ha formulato uno schema per strutturare i discorsi, il quale può essere seguito rigorosamente o meno. L'orazione prevede quattro parti, nell'ordine:
exordium, esordio, tentativo di accattivarsi l'uditorio delectando e movendo con ornamenti;
narratio, esposizione, esposizione dei fatti, per docere l'uditorio, in ordine cronologico o con una introduzione ad effetto in medias res;
argumentatio, argomentazione, dimostrazione delle prove a sostegno della tesi (confirmatio) e confutazione degli argomenti avversari (refutatio);
peroratio, epilogo, la conclusione del discorso, muovendo al massimo gli affetti dell'uditorio e sviluppando pathos.

Esordio
L'esordio (προoίμιον, exordium) è la parte che apre l'orazione, in cui viene esposto, sempre che non sia già noto, l'oggetto di cui ci si intende occupare (πρότασις). Il suo scopo è quello di accattivarsi i favori del pubblico (captatio benevolentiae) e annunciare le ripartizioni che si stanno per adottare nello svolgimento dell'orazione (partitio). Se la situazione lo permette, è possibile chiedere esplicitamente all'uditorio di essere benevoli, altrimenti si deve ricorrere all'insinuatio, entrare nell'animo degli ascoltatori per via sotterranea, evitando di parlare dei propri punti deboli per mostrare invece quelli degli avversari. Inoltre, è importante rendere subito nota la struttura dell'orazione e l'ordine degli argomenti, così da rendere il pubblico partecipe dei termini del discorso ed evitare che sembri troppo lungo.
Per accattivare e rendere più partecipi le giurie - nel caso dell'orazione giudiziaria greca, in particolare - all'interno del προoίμιον venivano inserite talvolta espressioni o periodi che sottolineavano la presa di coscienza da parte dell'oratore della difficoltà dell'argomento trattato o della sentenza da emettere (ad es. "mi rendo conto di quanto sia difficile per voi, o Ateniesi, giudicare...").
Si tenga presente che, nel caso si intenda trattare l'argomento in medias res, l'esordio e l'epilogo possono essere evitati.

Esposizione
L'esposizione (διήγησις o anche ῥῆσις, narratio) è il resoconto succinto, chiaro e verisimile dei fatti che vengono affrontati, così che sia funzionale all'argomentazione. Due sono i generi di disposizione dei contenuti: l'ordo naturalis, che segue lo svolgimento logico e cronologico degli eventi, e l'ordo artificialis, orientato più alla resa estetica tramite l'uso di figure retoriche, digressioni e altri procedimenti stilistici. Quest'ultimo è anche più intellettuale, poiché rompe la linearità del tempo per assecondare le esigenze della situazione e dell'argomento.
Nell'esposizione dei fatti è inoltre necessario perseguire quello che è il «giusto mezzo», non essere cioè troppo prolissi ma nemmeno tanto brevi da tralasciare qualcosa di importante. Bisogna poi ricordare che è essenziale la verosimiglianza dei fatti, i quali devono essere attendibili e devono essere disposti in maniera tale da assolvere alle tre funzioni della retorica: docere, movere e delectare.

Argomentazione
Cuore del discorso persuasivo è l'argomentazione (πίστις o πόδειξις, argumentatio), il resoconto delle prove a sostegno della tesi, che può prevedere anche un affondo contro le tesi avversarie. La sua struttura interna si compone di due parti: propositio e confirmatio, a cui può seguire una terza, l'altercatio. La propositio è una definizione ristretta della causa (o delle cause) da dibattere, subito seguita dalla confirmatio, l'elenco delle ragioni a favore, nell'ordine: dapprima quelle più forti, in seguito le più deboli e infine le più forti in assoluto. Talvolta, specie durante un processo, la confirmatio può essere interrotta dall'intervento di un avversario, come ad esempio un avvocato di parte opposta: in questo caso si parla di altercatio, un dialogo serrato tra il retore e il suo avversario.

Epilogo (perorazione)
L'epilogo (πίλογος, peroratio) è la parte conclusiva dell'orazione, e si muove su due livelli: riprende e riassume le cose dette (enumeratio e rerum repetitio), tocca le corde dei sentimenti (ratio posita in affectibus). Da un lato, il retore deve concludere dando un'idea d'insieme di quanto è stato detto e sostenuto, richiamando alla memoria i punti fondamentali; dall'altro, ha luogo la perorazione vera e propria, che fa leva sui sentimenti dell'uditorio ricorrendo a dei loci prestabiliti (in genere atti a creare indignazione o commiserazione).
L'elocuzione: lo stile
L'elocuzione (elocutio in latino, λέξις, lexis, in greco) è la parte che riguarda l'espressione, la forma da dare alle idee. L'elocutio si occupa dello stile da scegliere affinché il discorso risulti efficace, studiando quindi la parte estetica dell'espressione, la scelta (electio) e l'ordine (compositio) da dare alle parole. Sotto questo aspetto la retorica invade il campo della poetica, riprendendone gli elementi di ornamento, tra cui le più importanti sono le figure.

La composizione
La parte centrale dell'elocutio è rappresentata dalla cosiddetta compositio, operazione che consiste nella scelta e combinazione dei termini. Affinché il discorso possa risultare efficace, è necessario tenere conto nella fase di composizione di quattro qualità o requisiti fondamentali, meglio noti come virtutes elocutionis:
l'aptum (in greco πρέπον, prépon), l'adeguatezza del discorso al contesto in cui deve essere pronunciato;
la puritas (o latinitas), la correttezza sintattica e grammaticale;
la perspicuitas, la chiarezza, necessaria affinché il discorso sia comprensibile;
l'ornatus, gli ornamenti e tutti gli altri mezzi atti a rendere il discorso più bello e quindi più gradevole.
Tutte queste caratteristiche devono essere presenti, applicate o a singole parole o a intere frasi. Talvolta il mancato rispetto di una delle virtutes può essere giustificato da determinate esigenze espressive, e in questo caso si parla di licenza (licentia); in caso contrario, la mancanza viene sanzionata come errore (vitium).

Gli stili
L'espressione varia a seconda degli argomenti e della situazione in cui il discorso deve essere pronunciato. Per questo motivo, la retorica classica distingue tre stili (genera elocutionis):
nobile o sublime (genus sublime o grave),
umile (genus humile o tenue),
medio o moderato (genus medium).
Il sublime è lo stile nobile, elevato, e viene utilizzato per trattare di argomenti seri facendo leva sui sentimenti (movere), suscitando forti passioni; l'umile ha lo scopo di docere et probare, mentre lo stile medio, misto dei due precedenti, deve delectare attraverso un atteggiamento moderato che tenga conto dell'ethos.

La memoria
La mnemotecnica, la scienza che mira a sviluppare la memoria attraverso una serie di regole, è molto antica: tra gli intellettuali che si interessarono di questa disciplina ricordiamo il sofista Ippia di Elide e i filosofi Raimondo Lullo, Pico della Mirandola e Giordano Bruno. Nel corso del Seicento la mnemotecnica classica finì per essere assimilata alla ars combinandi, teoria della combinazione degli elementi associata al calcolo matematico.
La memoria entra a pieno titolo nel sistema della retorica classica a partire dal Libro III della Rhetorica ad Herennium (I secolo a.C.), e ricopre un ruolo importante in funzione della recitazione, poiché permette di mandare a mente la struttura e gli argomenti del discorso senza dover ricorrere ad appunti scritti, risultando particolarmente utile quando la situazione richiede di improvvisare. Generalmente si distinguono due tipi di memoria: la memoria naturale e quella artificiale. La prima è la dotazione naturale di cui dispongono tutti gli individui, mentre la seconda, che ha lo scopo di rafforzare la prima, viene appresa tramite una tecnica – la mnemotecnica, appunto – che funziona attraverso immagini e punti di riferimento fissi, ai quali vanno associati gli oggetti da ricordare: in questo modo l'atto del ricordare diventa una scrittura mentale, in cui ad ogni immagine corrisponde un oggetto e quindi un significato.

La recitazione
Infine, il retore deve anche essere in grado di recitare la propria orazione di fronte a un pubblico. Questo momento prende il nome latino di actio o pronunciatio (in greco πόκρισις, hypókrisis), e la sua efficacia è legata al modo in cui chi parla si presenta di fronte all'uditorio. Al retore è dunque richiesto di essere anche attore, di avere cioè buone capacità di recitazione, così da coinvolgere il pubblico attraverso la gestualità e il tono di voce. La sua indubbia importanza è stata tuttavia messa in secondo piano dai retori e dai teorici, che nei loro trattati preferiscono concentrarsi su inventio, dispositio ed elocutio, specie in riferimento alla produzione di testi scritti.

Le figure del discorso
Oltre ad occuparsi della costruzione del discorso, la retorica si interessa anche allo studio degli ornamenti, e in particolar modo all'uso delle figure. In origine le figure erano usate esclusivamente in poesia; il primo a farne uso in prosa, a quanto sappiamo, fu Gorgia: la retorica gorgiana si caratterizzava infatti per una forte enfasi e una grande ricercatezza stilistica, e il suo periodare era reso melodico dall'uso frequente di espedienti ricavati dalla poesia.
Il termine «figura» (σχμα, schēma) è usato per la prima volta da Anassimene di Lampsaco (IV secolo a.C.), ma il primo a studiare le figure in modo sistematico è Aristotele, il cui allievo Demetrio Falereo in seguito proporrà la distinzione tra figure del discorso figure del pensiero. Nel corso dei secoli, e soprattutto in epoca barocca, i teorici si sono impegnati in un'imponente opera di classificazione delle varie figure, senza però giungere ad una tassonomia condivisa. In particolare, a destare interesse sono le figure di significazione, altrimenti dette tropi, la cui collocazione è oggetto di dibattito: talvolta i tropi vengono semplicemente inseriti insieme alle altre tipologie di figure, mentre altre volte vengono distinti e ad esse opposti. Di seguito si riporta, a titolo esemplificativo, la classificazione proposta da Fontanier (1830), citata a pagina 144 del Manuale di retorica di Bice Mortara Garavelli, nella quale le figure del discorso sono divise in tropi e non tropi.
FIGURE DEL DISCORSO
Tropi
Figure di significazione (tropi veri e propri)
Figure di espressione (tropi impropriamente detti)
Non tropi
Figure di dizione (metaplasmi)
Figure di costruzione
Figure di elocuzione
Figure di stile
Figure di pensiero
Τρόπος (trópos) in greco propriamente significa «direzione», ma il suo significato originario è stato successivamente abbandonato per quello di «deviazione», «conversione». Per tropo infatti si intende una variazione (mutatio) del significato di un'espressione rispetto al suo significato originario; i tropi propri (figure di significazione) riguardano singole parole, mentre quelli impropri (figure di espressione) riguardano più parole o parti di frasi. Sul loro numero e la loro classificazione non vi è accordo; quelli fondamentali, a cui possono essere ricondotti tutti gli altri, sono 3: metafora, metonimia, sineddoche. La metafora (da metapherein, trasportare) è il più classico dei tropi, e consiste nella sostituzione di una parola con un'altra il cui senso ha qualche affinità con la parola che sostituisce. Si ha invece una metonimia quando si definisce un oggetto con un termine diverso, il cui significato è però continuo a quello dell'oggetto in questione (per esempio: «cuore» per indicare i sentimenti, «Foscolo» per indicare le sue opere). La sineddoche infine (talvolta confusa con la metonimia) consiste nel definire un oggetto con un termine legato ad esso tramite rapporti di causalità o inclusione (per esempio: «legno» per indicare un'imbarcazione, «felino» per indicare un gatto). Oltre a queste tre, Lausberg classifica come tropi anche: antonomasia, enfasi, litote, iperbole, perifrasi, ironia, metalessi.
Le altre figure retoriche, che Fontanier classifica come «non tropi» e suddivide in cinque classi, vengono più semplicemente divise dalla retorica antica in due gruppi: figure di parole (in cui rientrano le figure di dizione, costruzione, elocuzione e stile) e figure del pensiero. Le figure di parole riguardano l'espressione linguistica, e si costruiscono per addizione (ripetizione, climax, paronomasia etc.) o soppressione di parole (ellissi, asindeto e zeugma), oppure ancora per mutamento dell'ordine delle parole (anastrofe, iperbato etc.). Le figure di pensiero invece interessano le idee o le immagini che appaiono dalla frase, e si ottengono per addizione o sottrazione (ossimoro, chiasmo etc.), oppure per variazione (hysteron proteron, apostrofe etc.).