giovedì 27 novembre 2014

06 - Cechov, Il tabacco fa male: un esempio di come non redigere un testo espositivo

SUL DANNO DEL TABACCO di Anton Pavlovic Cechov, 1902

 

PERSONAGGI


IVAN IVANOVIC NJUCHIN, marito della propria moglie, direttrice di una scuola di musica e di un collegio femminile.



La scena rappresenta il palcoscenico di uno dei tanti circoli di provincia.





NJUCHIN (con lunghi favoriti, senza baffi, in un vecchio frac liso, si muove maestosamente, fa inchini e si aggiusta il gilet) Gentili signore e, in un certo qual modo, gentili signori. (Si pettina i favoriti). È stato proposto a mia moglie che io tenessi qui una conferenza popolare a scopo benefico. Che fare? Una conferenza, e conferenza sia, la cosa mi è del tutto indifferente. Io non sono certo professore, sono estraneo alle gerarchie accademiche, ma, ciononostante, già da trent'anni, senza interruzione, dirò addirittura a danno della mia propria salute e tutto il resto, mi dedico comunque a problemi di carattere scientifico, ragiono e scrivo persino, pensate un po', articoli scientifici, vale a dire non esattamente scientifici, ma, se mi scuseranno l'espressione, proprio come se fossero tali. A proposito, in questi giorni ho redatto un articolo di enormi proporzioni dal titolo: Del danno provocato da alcuni insetti. Alle mie figlie è molto piaciuto, in particolare dove dico delle cimici, io l'ho letto e subito stracciato. Comunque è del tutto indifferente, scrivi ciò che vuoi, ma senza l'insetticida il problema non si risolve. Noi le cimici le abbiamo persino nel pianoforte... Come argomento della mia conferenza odierna ho scelto, per così dire, il danno che reca all'umanità l'uso del tabacco. Sono fumatore anch'io, ma mia moglie mi ha ordinato di parlare oggi della nefasta influenza del tabacco, e quindi la cosa non si discute. Del tabacco, e tabacco sia, per me è del tutto indifferente; a loro, gentili signori, propongo di rapportarsi alla mia presente conferenza con la dovuta serietà, altrimenti non se ne caverà nulla. Chi fosse spaventato da un'arida conferenza scientifica, chi non l'apprezzasse, può non ascoltarla e uscire. (Si aggiusta il gilet).Chiedo particolare attenzione ai signori medici qui presenti, che potranno trarre dalla mia conferenza molte indicazioni utili, visto che il tabacco, oltre alle sue nefaste influenze, viene usato anche in medicina. Per esempio, se si chiudesse una mosca in una tabacchiera, probabilmente creperebbe di esaurimento nervoso. Il tabacco è, essenzialmente, una pianta... Quando tengo una conferenza, di solito ammicco con l'occhio destro, ma loro non facciano caso; è l'emozione. Sono una persona molto nervosa, parlando in generale, ma ad ammiccare ho cominciato nel 1889, il 13 settembre, lo stesso giorno in cui a mia moglie nacque, in un certo senso, la nostra quarta figlia Varvara. Tutte le mie figlie sono nate il 13 del mese. Comunque (dopo aver guardato l'orologio), considerando il poco tempo a disposizione, non esuleremo dal tema della conferenza. Devo far loro notare che mia moglie dirige una scuola di musica e un pensionato privato, voglio dire non un pensionato, ma qualcosa di simile. Parlando fra noi, mia moglie ama piangere miseria, ma ha qualcosa da parte, quaranta o cinquantamila, io invece non ho un copeco, non un centesimo, ma che vale parlarne! Nel pensionato io costituisco il responsabile dell'economia domestica. Penso alle provviste, controllo la servitù, annoto le spese, preparo i quaderni, stermino le pulci, porto a spasso il cane di mia moglie, do la caccia ai topi... Ieri sera era di mia competenza consegnare la farina e il burro alla cuoca, dal momento che erano in programma le frittelle. Ebbene, in poche parole, oggi, quando le frittelle erano già pronte, mia moglie è venuta in cucina a dire che tre educande non le avrebbero mangiate perché gli si erano gonfiate le ghiandole. E così è risultato che si erano preparate delle frittelle in eccesso. Che cosa ordinate di farne? Mia moglie in principio ha ordinato che fossero portate in cantina, poi, pensa e ripensa, dice: "Mangiale tu quelle frittelle, spaventapasseri". Quando è di cattivo umore mi chiama così: spaventapasseri, o aspide, o satana. Ma che satana sarò mai io? Lei è sempre di cattivo umore. E io non le ho mangiate, bensì inghiottite, senza masticarle, dal momento che ho sempre fame. Ieri, per esempio, non mi ha fatto pranzare. "Dar da mangiare a te, spaventapasseri - dice - non è il caso... ". Ma, però (guarda l'orologio), abbiamo parlato un po' a vanvera, e ci siamo allontanati dal nostro tema. Continuiamo. Per quanto loro ora ascolterebbero volentieri una romanza, o una qualsiasi sinfonia, o un'aria... (Accenna una melodia). "Non batteremo ciglio, nell'ardore dello scontro...". Non ricordo da dove è tratto... A proposito, ho dimenticato di dir loro che nella scuola di musica di mia moglie, oltre l'economia domestica, è di mia competenza l'insegnamento della matematica, della fisica, della chimica, della geografia, della storia, del solfeggio, della letteratura eccetera. Per la danza, il canto e il disegno mia moglie percepisce un pagamento a parte, sebbene danza e canto li insegni io. La nostra scuola di musica si trova nel vicolo dei Cinque cani, al numero 13. Forse è per questo che la mia vita è così piena di disgrazie, per il fatto che abitiamo al numero 13. Anche le mie figlie sono nate il giorno 13, e in casa nostra ci sono 13 finestre... Beh, che farci! Per prendere accordi, mia moglie la si trova in casa in qualunque momento, mentre il programma della scuola, se vi interessa, è in vendita dal portiere a trenta copechi la copia. (Estrae di tasca alcuni opuscoli).Se qualcuno è interessato posso provvedere io. Trenta copechi la copia! Chi ne vuole? (Pausa).Nessuno ne vuole? Su, venti copechi! (Pausa).Peccato. Già, la casa numero 13! Non mi riesce niente, sono invecchiato, rincitrullito... Adesso sto facendo la conferenza, ho l'aspetto allegro, ma dentro avrei voglia di gridare a tutta voce o di volar via chissà dove al di là dei tre mari. E non mi posso sfogare con nessuno, ho persino voglia di piangere... Loro diranno: le figlie... Quali figlie? Io parlo con loro, e quelle non fanno che ridere... Mia moglie ha sette figlie... No, chiedo scusa, devono essere sei... (Vivacemente).Sette! La maggiore, Anna, ha ventisette anni, la minore diciassette. Gentili signori! (Si guarda intorno).Sono infelice, mi sono abbandonato alle sciocchezze, alla miseria, ma in fondo loro vedono in me il più felice dei padri. In fondo così deve essere, e io non mi azzarderò a dire altrimenti. Se loro soltanto sapessero! Ho passato con mia moglie trentatré anni e, posso dire, sono stati i migliori anni della mia vita, non proprio i migliori, così in generale. Sono trascorsi, per farla breve, in un felice istante, per quanto mi riguarda, che il diavolo se li porti. (Si guarda attorno).Comunque, lei, a quanto pare, non è ancora arrivata, non è qui, e si può dire qualunque cosa si voglia... Io sono terrorizzato... terrorizzato quando lei mi guarda. Sì, dicevo: le mie figlie aspettano tanto a trovar marito probabilmente perché sono timide, e anche perché non vedono mai uomini. Mia moglie non vuole dare feste, ai pranzi non invita mai nessuno, è una dama molto avara, irosa, litigiosa, per questo da noi non viene mai nessuno, ma... posso confidar loro in segreto... (Si avvicina alla scaletta).Le figlie di mia moglie le si può vedere nelle occasioni di festa grande, dalla loro zia Natalja Semenovna, quella stessa che soffre di reumatismi e che va in giro con quell'abito giallo a macchiette nere, come se fosse invasa dagli scarafaggi. Là servono anche gli antipasti. E quando mia moglie non c'è ci si concede anche questo... (Porta il pollice alla bocca, nel gesto di bere).Devo far loro notare che io mi ubriaco con un solo bicchierino, e ciò mi mette l'animo in pace ma mi procura anche una gran tristezza che non riesco ad esprimere a parole; mi tornano in mente, chissà perché, gli anni giovanili, e vien voglia di correre, ah se loro sapessero che voglia! (Divertito).Correre, lasciar perdere tutto e correre senza voltarsi indietro... dove? Non importa dove... purché si corra via da questa vita schifosa, volgare e meschina, che mi trasforma in un vecchio, penoso stupidone; correre via da questa sciocca, misera, cattiva, cattiva, cattiva spilorcia, da mia moglie, che per trentatré anni mi ha tormentato, correre via dalla musica, dalla cucina, dai soldi di mia moglie, da tutte quelle cose sciocche e volgari... e fermarsi da qualche parte lontano lontano, in un campo e starsene immobile come un albero, come un palo, come uno spaventapasseri, sotto il cielo aperto e tutta notte guardare la luna che se ne sta quieta e splendente sopra di te, e dimenticare, dimenticare... Oh, come vorrei non ricordare nulla!... Come vorrei strapparmi di dosso questo vecchio frac abietto in cui trent'anni fa mi sono sposato... (si strappa di dosso il frac) in cui regolarmente tengo conferenze a scopo benefico... Toh! (Calpesta il frac).Toh! Sono vecchio, io, povero, penoso, come questo gilet con la sua schiena lisa e spelacchiata... (Mostra la schiena).Non ho bisogno di niente! Sono superiore e più puro di tutto questo, sono stato, tempo fa, giovane intelligente, ho studiato all'università, sognavo, mi consideravo un uomo... Adesso non ho bisogno di niente! Niente, tranne la quiete... tranne la quiete! (Dopo aver guardato da un lato, indossa rapidamente il frac).Ecco dietro le quinte c'è mia moglie... E arrivata e mi aspetta là... (Guarda l'orologio).Il tempo è già passato... Se domanderà loro qualcosa, io prego di dirle che la conferenza ha avuto luogo... che lo spaventapasseri, cioè io, si è comportato dignitosamente. (Guarda di lato, tossisce). Sta guardando verso di me... (Alzando la voce). Basandosi sul concetto che il tabacco contiene in sé un terribile veleno, del quale ho appena parlato, non è opportuno fumare in nessuna circostanza, e mi permetto, in un certo senso, di sperare che questa mia conferenza sul danno del tabacco si manifesterà di qualche utilità. Ho finito. Dixi et animam levavi!

Si inchina ed esce solennemente.


15 - Tucidide, L'encomio di Pericle: un esempio di testo espositivo

TUCIDIDE, L’encomio di Pericle

Siamo all’inizio della guerra del Peloponneso – Atene è al massimo della sua potenza –: alla fine del primo anno Pericle commemora, secondo la tradizione della città, i caduti ateniesi. Con grande maestria Tucidide utilizza questa occasione per far comprendere al lettore come gli Ateniesi “vivevano” l’éthos della loro città.

Tucidide, Storie, II, 34-36

Comincerò prima di tutto dagli antenati: è giusto infatti e insieme doveroso che in tale circostanza a loro sia tributato l’onore del ricordo.
Questo paese, che essi sempre abitarono, libero lo trasmisero ai discendenti che li seguirono fino al nostro tempo, e fu merito del loro valore. Se però degni di lode sono essi, ancora di piú lo sono i padri nostri, che, oltre a quello che avevano ereditato, conquistarono il dominio che possediamo, quant’esso è grande, e a prezzo di gravi sacrifici a noi d’oggi lo lasciarono. Quello che abbiamo in piú l’abbiamo aggiunto noi qui presenti che siamo ancora nell’età matura e abbiamo fatto sí che la nostra città, in tutti i campi, fosse a sé piú che mai bastante e per la guerra e per la pace.
Tralascerò di ricordare le loro imprese belliche, ciò che con ciascuna di esse fu conquistato o se con slancio abbiamo, noi o i padri nostri, respinto l’invasore, fosse barbaro o greco a noi ostile: non voglio dilungarmi con coloro che sanno ogni cosa. Passerò quindi a tessere l’elogio di costoro, dopo però aver messo in luce con quale sistema di vita giungemmo a tanto e in virtú di quale forma di governo e con quali abitudini s’ingrandí il nostro dominio; convinto come sono che in questo momento non è sconveniente parlarne e che per tutta la folla dei cittadini e dei forestieri sarà utile ascoltarlo.
Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno. Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensí di una cerchia piú vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle private controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, non tanto per il suo partito, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura sua posizione sociale.
Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica cosí in quel vicendevole sorvegliarsi che si verifica nelle azioni di ogni giorno, noi non ci sentiamo urtati se uno si comporta a suo gradimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualche cosa di poco gradito.
Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi pubblici abbiamo un’incredibile paura di scendere nell’illegalità: siamo obbedienti a quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi e tra esse in modo speciale a quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta.
Inoltre, a sollievo delle fatiche, abbiamo procurato allo spirito nostro moltissimi svaghi, celebrando secondo il patrio costume giochi e feste che si susseguono per tutto l’anno e abitando case fornite di ogni conforto, il cui godimento quotidiano scaccia da noi la tristezza.
Affluiscono poi nella nostra città, per la sua importanza, beni d’ogni specie da tutta la Terra e cosí capita a noi di poter godere non solo tutti i frutti e prodotti di questo paese, ma anche quelli degli altri, con uguale diletto e abbondanza come se fossero nostri.
Anche nei preparativi di guerra ci segnaliamo sugli avversari. La nostra città, ad esempio, è sempre aperta a tutti e non c’è pericolo che, allontanando i forestieri, noi impediamo ad alcuno di conoscere o di vedere cose da cui, se non fossero tenute nascoste e un nemico le vedesse, potrebbe trar vantaggio; perché fidiamo non tanto nei preparativi e negli stratagemmi, quanto nel nostro innato valore che si rivela nell’azione.
Diverso è pure il sistema di educazione: mentre gli avversari, subito fin da giovani, con faticoso esercizio vengono educati all’eroismo; noi, invece, pur vivendo con abbandono la vita, con pari forza affrontiamo pericoli uguali. E la prova è questa: gli Spartani fanno irruzione nel nostro paese, ma non da soli, bensí con tutti gli alleati; noi invece, invadendo il territorio dei vicini, il piú delle volte non facciamo fatica a superare in campo aperto e in paese altrui uomini che difendono i propri focolari.
E sí che mai nessuno dei nemici si è trovato di fronte tutta intera la nostra potenza, dato che noi rivolgiamo le nostre cure alla flotta di mare, ma anche, nello stesso tempo, mandiamo milizie cittadine in molti luoghi del continente. Quando gli avversari vengono a scontrarsi in qualche luogo con una piccola parte delle nostre forze, se riescono ad ottenere un successo parziale si vantano di averci sbaragliati tutti e se sono battuti, vanno dicendo, a loro scusa, di aver ceduto a tutto intero il nostro esercito. E per vero se noi amiamo affrontare i pericoli con signorile baldanza, piuttosto che con faticoso esercizio, e con un coraggio che non è frutto di leggi, ma di un determinato modo di vivere, abbiamo il vantaggio di non sfibrarci prima del tempo per dei cimenti che hanno a venire e, di fronte ad essi, ci dimostriamo non meno audaci di coloro che di fatiche vivono. Se per questi motivi è degna la nostra città di essere ammirata, lo è anche per altre ragioni ancora.
Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza. Usiamo la ricchezza piú per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma piú vergognoso non adoperarsi per fuggirla.
Le medesime persone da noi si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile.
Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare.
Abbiamo infatti anche questa nostra dote particolare, di saper, cioè, osare quant’altri mai e nello stesso tempo fare i dovuti calcoli su ciò che intendiamo intraprendere: agli altri, invece, l’ignoranza provoca baldanza, la riflessione apporta esitazione. Ma fortissimi d’animo, a buon diritto, vanno considerati coloro che, conoscendo chiaramente le difficoltà della situazione e apprezzando le delizie della vita, tuttavia, proprio per questo, non si ritirano di fronte ai pericoli.
Anche nelle manifestazioni di nobiltà d’animo noi ci comportiamo in modo diverso dalla maggior parte: le amicizie ce le procuriamo non già ricevendo benefici, ma facendone agli altri. È amico piú sicuro colui che ha fatto un favore, in quanto vuol mettere in serbo la gratitudine dovutagli con la benevolenza dimostrata al beneficato. Chi invece tale beneficio ricambia è piú tiepido, poiché sa bene che ricambierà non per avere gratitudine, ma per adempiere un dovere. Noi siamo i soli che francamente portiamo soccorso ad altri non per calcolo d’utilità, ma per fiduciosa liberalità.
In una parola, io dico che non solo la città nostra, nel suo complesso, è la scuola dell’Ellade, ma mi pare che in particolare ciascun Ateniese, cresciuto a questa scuola, possa rendere la sua persona adatta alle piú svariate attività, con la maggior destrezza e con decoro, a se stesso bastante.
E che questo che io dico non sia vanto di parole per l’attuale circostanza, ma verità comprovata dai fatti, lo dimostra la potenza stessa di questa città che con tali norme di vita ci siamo procurata.
Sola infatti, tra le città del nostro tempo, si dimostra alla prova superiore alla sua stessa fama ed è pure la sola che al nemico che l’assale non è causa di irritazione, tale è l’avversario che lo domina; né ai sudditi motivo di rammarico, come sarebbe se i dominatori non fossero degni di avere il comando. Con grandi prove, dunque, non già senza testimoni, avendo noi conseguito tanta potenza, da contemporanei e da posteri saremo ammirati; non abbiamo bisogno di un Omero che ci lodi o di altro poeta epico che al momento ci lusinghi, mentre la verità toglierà il vanto alle presunte imprese, noi che abbiamo costretto ogni mare e ogni terra ad aprirsi al nostro coraggio; ovunque lasciando imperituri ricordi di disfatte e di trionfi.
Per una tale città, dunque, costoro nobilmente morirono, combattendo perché non volevano che fosse loro strappata, ed è naturale che per essa ognuno di quelli che sopravvivono ami affrontare ogni rischio.
Per questo io mi sono diffuso a parlare dei pregi della nostra città: per dimostrare che, nella lotta, la posta è ben piú elevata per noi che non per quelli che non hanno nulla di simile da vantare e per fondare su chiare prove l’elogio che intendo pronunciare. Anzi il piú è già stato detto: poiché fu proprio la virtú di questi uomini e di quelli a loro simili che rese splendente il serto di gloria della nostra città, della quale ho tessuto le lodi. Non sono molti i Greci le cui imprese siano all’altezza di un tale elogio, come per costoro. A mio avviso, anzi, questo genere di morte dimostra in pieno la vera virtú dell’uomo: ne costituisce non solo la prima rivelazione, ma anche l’estrema conferma. Poiché giustizia vuole che sia posto in primo piano anche il valore mostrato nelle guerre per la patria da coloro che, per il resto, non brillarono di buona luce: con l’eroismo essi cancellarono le macchie precedenti e maggiore fu l’utile che apportarono al bene comune, che non il danno derivato dai loro difetti privati. Di costoro nessuno fu indotto a viltà per la brama di poter ancora oltre godere il frutto dei suoi beni di fortuna; né per la speranza di sfuggire la povertà e di poter quindi in seguito diventar ricco cercò pretesti o indugi di fronte al cimento. Ma a tutto ciò stimarono preferibile la vendetta contro i nemici; e, convinti che fra i pericoli quello affrontato per la patria è il piú splendido, con tale rischio vollero punire gli avversari e aspirare a questi beni. Alla speranza affidarono l’incertezza del successo, ma all’atto pratico, di fronte alla realtà evidente, ritennero di poter nutrire fiducia nel proprio valore. Nel fervore della lotta, preferendo anche morire piuttosto che salvarsi cedendo, fuggirono il disonore, sostenendo la lotta a prezzo della vita: e, nell’attimo bruciante della sorte, al sommo del coraggio cosciente, non già nel terrore, morirono.
Essi furono, dunque, di quella tempra che l’onore di Atene richiedeva: tutti gli altri devono augurarsi una decisione piú fortunata sí, ma non meno audace e indomabile volerla di fronte ai nemici, avendo di mira non soltanto a parole il bene dello stato (ognuno potrebbe di fronte a voi, che pur non ne siete all’oscuro, dilungarsi molto ad enumerare tutti i vantaggi che la vittoriosa resistenza ai nemici comporta), ma piuttosto di giorno in giorno contemplando, in fervore d’opere, la grandezza della nostra città, che deve essere oggetto del vostro amore. E quando essa veramente grandeggi davanti alla vostra immaginazione, pensate che tale la fecero uomini dal cuore saldo e dall’intelligenza pronta al dovere, sorretti nelle imprese dal sentimento dell’onore: e se mai, alla prova, talvolta fallirono, non ritennero di dover defraudare la città almeno del loro valore; anzi le offersero, prodighi, il piú splendido contributo. Facendo nell’interesse comune sacrificio della vita, si assicurarono, ciascuno per proprio conto, la lode che non invecchia mai e la piú gloriosa delle tombe; non tanto quella in cui giacciono, quanto la gloria che resta eterna nella memoria, sempre e ovunque si presenti occasione di parlare e di agire. Per gli uomini prodi, infatti, tutto il mondo è tomba e non è solo l’epigrafe incisa sulla stele funebre nel paese loro che li ricorda; ma anche in terra straniera, senza iscrizioni, nell’animo di ognuno vive la memoria della loro grandezza, piuttosto che in un monumento. Ora, dunque, proponetevi di imitarli e, convinti che la felicità sta nella libertà e la libertà nell’indomito coraggio, non fuggite i rischi della guerra.
Poiché non sono i miseri che possono far gettito della vita, essi che nulla di buono possono sperare; ma è piú giusto che la gettino allo sbaraglio coloro per i quali, mentre ancora vivono, un grave rischio sarà la sorte contraria e molto amara la differenza di condizione, se saranno sconfitti.
Ben piú doloroso, infatti, è, almeno per un uomo d’alto sentire, l’infortunio col marchio della viltà che non la morte affrontata con fortezza, arrisa dalla comune speranza, trapasso che giunge inavvertito.
Per questo, o genitori dei caduti quanti qui siete, non vi compiango, ma cercherò piuttosto di confortarvi. Sapete, infatti, di esser cresciuti fra le piú varie vicende: felice solo chi ebbe in sorte la piú splendida delle morti, come ora costoro, e il piú nobile dei dolori, come voi. Beati coloro che videro la gioia della vita coincidere con una morte felice.
So che è difficile, senza dubbio, convincervi di questa verità; tanto piú che spesso il vostro ricordo sarà sollecitato dall’altrui felicità, che un giorno pure voi rendeva orgogliosi: dolore vero non ha chi si trova privo di beni di cui non ha esperimentato il valore; ma chi, dopo una dolce abitudine, si vede strappata la sua gioia. Eppure bisogna dar prova di forza anche nella speranza di altri figli, chi è in età di poterne ancora avere: i nuovi germogli attenueranno nel cuore di alcuni, in privato, il dolore cocente per quelli che piú non sono e alla città apporteranno un duplice vantaggio: rifiorire di vita e sicurezza nei pericoli. Non è possibile, infatti, che deliberino in modo imparziale e giusto coloro che non abbiano, come gli altri, dei figli da esporre ai pericoli. E voi quanti ormai siete avanti nell’età considerate come un guadagno la parte piú lunga della vita che avete vissuto felici; pensate che quello che vi resta sarà un tratto breve, e la gloria di costoro vi sia di sollievo. L’amore della gloria è l’unico che non invecchia mai e nella tarda età non dà tanta gioia l’accumular ricchezza, come dicono alcuni, quanta piuttosto ne procura il ricevere onori.
Per voi, figli o fratelli dei caduti che mi ascoltate, io prevedo una difficile gara (tutti, infatti, amano lodare chi non è piú) e a fatica, pur con un merito maggiore, potrete esser giudicati non dico pari ad essi, ma di poco ad essi inferiori. Nel confronto tra vivi, contro l’emulo s’avventa l’invidia; chi invece non può piú essere d’ostacolo viene lodato con benevolenza senza rivalità.
E se devo fare un accenno anche alla virtú delle donne, per quante ora si troveranno in vedovanza, comprenderò tutto in questa breve esortazione. Gran vanto per voi dimostrarvi all’altezza della vostra femminea natura; grande è la reputazione di quella donna di cui, per lode o biasimo, si parli il meno possibile fra gli uomini.
Ho terminato; nel mio discorso, secondo la tradizione patria, ho detto quanto ritenevo utile; di fatto, coloro che qui sono sepolti hanno già avuto in parte gli onori dovuti. Per il resto, i loro figli da oggi saranno mantenuti a spese dello stato fino alla virilità: è questa l’utile corona che per siffatti cimenti la città propone e offre a coloro che qui giacciono e a quelli che restano. Là dove si propongono i massimi premi per la virtú, ivi anche fioriscono i cittadini migliori.
Ora, dopo aver dato il vostro tributo di pianto ai cari che avete perduto, ritornatevene alle vostre case.


(Tucidide, La guerra del Peloponneso, Mondadori, Milano, 1971, vol. I, pagg. 121-128)



05 - Goldoni, l'Avvocato veneziano, Atto III Scena II: due brevi esempi di arringhe in stili diversi

Carlo Goldoni, L’AVVOCATO VENEZIANO, Atto III, Scena II

Giudice:  (Suona il campanello)
Dottore:  (S'alza) Siamo, qui, illustrissimo signore, per definire la causa Balanzoni e Aretusi. Vossignoria illustrissima non ha voluto leggere la mia scrittura di allegazione, comandi dunque: che cosa ho da fare?
Giudice:  Non ho voluto leggere la vostra scrittura d'allegazione in questa causa, perché io, secondo il nostro stile, non ricevo informazioni private. Le vostre ragioni le avete a dire in contradditorio.
Dottore:  Le mie ragioni sono tutte registrate in questa scrittura; se vossignoria illustrissima la vuol leggere...
Giudice:  Non basta che io la legga; l'ha da sentire il vostro avversario. Se volete, vi è qui il lettore che la leggerà.
Dottore:  Se si contenta, la leggerò io.
Giudice:  Fate quel che vi aggrada. (Il Lettore va dall'altra parte e si pone a sedere indietro. Il Dottore siede, e legge la scrittura d'allegazione. Alberto colla sua penna da lapis va facendo le sue annotazioni. Rosaura con gli occhi bassi mai guarda Alberto, né egli mai Rosaura)
Dottore:  (Legge)

RHODIGIENSIS DONATIONIS
PRO DOMINA ROSAURA BALANZONI
CONTRA DOMINUM FLORINDUM ARETUSI

Illustrissimo Signore
Se è vero, come è verissimo in jure, che unusquisque rei suae sit moderator et arbiter, onde ognuno delle sue facoltà possa a suo talento disporre, vero sarà e incontrastabile che il fu signor Anselmo Aretusi, padre del signor Florindo, avversario in causa, avrà potuto beneficare colla sua donazione la povera ed infelice Rosaura Balanzoni, che col mezzo della mia insufficienza chiede al tribunale di vossignoria illustrissima della donazione medesima la plenaria confermazione, previa la confermazione della sentenza a legge, giustamente a nostro favore pronunciata.
Nell'anno 1724, il fu signor Anselmo Aretusi pregò il fu Pellegrino Balanzoni, padre di questa infelice, che a lui la concedesse per figlia adottiva, giacché dopo dieci anni non aveva avuta prole alcuna dal suo matrimonio. Pellegrino Balanzoni aveva tre figlie, e per condiscendere alle istanze d'Anselmo, si privò di questa, per contentare l'amico; onde eccola passata dalla podestà del padre legittimo e naturale a quella del padre adottivo: Quia per adoptionem acquiritur patria potestas. Per prezzo, o sia remunerazione, d'avergli il padre naturale ceduta la propria figlia, e in tal maniera consolato il di lui dolore per la privazione di prole, fece una donazione alla figlia adottiva di tutti i suoi beni liberi, ascendenti alla somma di ventimila ducati, riserbandosi di testare mille ducati per la validità della donazione. Se morto fosse il padre adottivo senza figliuoli del suo matrimonio nati, non vi sarebbe chi contendesse alla donataria i beni liberi del donatore, ma essendo nato due anni dopo il signor Florindo avversario, egli impugna la donazione, la pretende nulla e di niun valore, e ne domanda revocazione, o sia taglio. Ecco l'articolo legale: se si sostenga la donazione a favore della donataria, non ostante la sopravvenienza del figlio maschio del donatore. A prima vista pare che io abbia a temere la decisione alla mia cliente contraria, fondandosi gli avversari sul testo: Per supervenientiam liberorum revocatur donatio. Lege: Si unquam, Codice de revocandis donationibus. Ma esaminando minutamente il contratto della donazione, le circostanze e le conseguenze, spero di ottenere dalla sapienza del giudice favorevole la sentenza.
Varie ragioni, tutte fortissime e convincenti, m'inducono ad assicurarmi della vittoria.
Prima di tutto è osservabile che quando seguì la donazione di cui si tratta, erano passati dodici anni di matrimonio del donatore, senza aver mai avuti figliuoli, onde si potea persuader ragionevolmente di non più conseguirne. Con questa fede il padre suo naturale si è privato della sua tenera figlia, e senza la previa donazione non gliel'avrebbe concessa.
Ma, più forte, per causa di questa donazione il padre naturale ha collocate le altre due figlie decentemente, né di questa ha fatto menzione. Ha loro distribuite le sue sostanze, ed affidatosi che la terza fosse provveduta coi beni del donatore, è morto senza lasciare alcun benché minimo provvedimento, onde, se Rosaura perde la causa, resta miserabile affatto, destituta di ogni soccorso, senza dote, senza casa e senza alimenti. All'incontro il signor Florindo avversario, se perde, come perderà senz'altro, i ventimila ducati, gli resta la dote materna, consistente in ducati cinquemila, gli restano i fideicommissi ascendentali che ammontano a più di trentamila ducati, come si giustifica nel processo, che avrà vossignoria illustrissima bastantemente osservato.
Tutte le ragioni dette finora, cavate dalle viscere della causa e dalle verità de' fatti provati, potrebbero bastare per indur l'animo del sapientissimo giudice a pronunciare il favorevole decreto; ma siccome noi altri jurisconsulti erubescimus sine lege loqui, e gridano le leggi: quidquid dicitur, probari debet, mi dispongo a provare colle autorità quanto finora ho allegato. La donazione si sostiene, perché: Donatio perfecta revocari non potest. Clarius in paragrapho donatio, quaestione prima, numero tertio. Né osta l'obbietto: per supervenientiam liberorum revocatur donatio. Perché ciò s'intende quando la donazione è fatta all'estraneo, non quando è fatta al figliuolo. Lege: Si totas, Codice de inofficiosis donationibus. Sed sic est, che la presente donazione è stata fatta alla figlia adottiva; quae per adoptionem aequiparatur filio legitimo et naturali, ergo la donazione non è revocabile.
Ma per ultimo mi sono riserbato il più forte argomento per abbatter tutte le ragioni dell'avversario. La donazione di cui si tratta, benché abbia aspetto di donazione inter vivos, ella però, riguardo all'effetto di essa, verificabile tantum post mortem donatoris, è più tosto una donazione causa mortis, ut habetur ex hoc titulo de donationibus causa mortis. La donazione causa mortis habet vim testamenti. Lege secunda in verbo legatum, Digestis, de dote praelegata. Ergo se non si sostenesse come donazione, si sosterrebbe in vigore di testamento. È vero che mens hominis est ambulatoria usque ad ultimam vitae exitum: ma appunto per questo, perché morendo il donatore non ha revocata la donazione, ha inteso che quella sia l'ultima sua volontà, la quale si deve attendere ed osservare.
Concludo adunque che la donazione non è revocabile, che la donataria merita tutta la compassione, e che unita questa alla giustizia nell'animo di vossignoria illustrissima, mi fa, come diceva a principio, esser sicuro della vittoria. (fa una reverenza al Giudice)

Alberto:  (S'alza, dà alcune carte al Lettore, che s'alza e s'accosta al tribunale)
(Rosaura alza gli occhi, e vedendo Alberto in atto di parlare, fa un atto di disperazione e si asciuga gli occhi col fazzoletto)
(Alberto la vede, incontrandosi a caso cogli occhi nel di lei volto. Fa anch'egli un atto d'ammirazione. Poi mostra di raccogliersi, e principia la disputa)
Alberto:  Gran apparato de dottrine, gran eleganza de termini ha messo in campo el mio reverito avversario; ma, se me permetta de dir, gran disputa confusa, gran fiacchi argomenti, o per dir meggio, sofismi. Responderò col mio veneto stil, segondo la pratica del nostro foro, che val a dir col nostro nativo idioma, che equival nella forza dei termini e dell'espression ai più colti e ai più puliti del mondo. Responderò colla lezze alla man, colla lezze del nostro Statuto, che equival a tutto el codice e a tutti i digesti de Giustinian, perché fondà sul jus de natura, dal qual son derivade tutte le leggi del mondo. No lasserò de responder alle dottrine dell'avversario, perché me sia ignoti quei testi o quei autori legali, dai quali dottamente el le ha prese, perché anca nualtri, e prima de conseguir la laurea dottoral, e dopo ancora, versemo sul jus comun, per esser anca de quello intieramente informadi, e per sentir le varie opinion dei dottori sulle massime della giurisprudenza. Ma lasserò da parte quel che sia testo imperial, perché avemo el nostro veneto testo, abbondante, chiaro e istruttivo, e in mancanza de quello, in qualche caso, tra i casi infiniti che son possibili al mondo, dal Statuto o non previsti o non decisi, la rason natural xe la base fondamental sulla qual riposa in quiete l'animo del sapientissimo giudice; avemo i casi seguidi, i casi giudicadi, le leggi particolari dei magistrati, l'equità, la ponderazion delle circostanze, tutte cosse che val infinitamente più de tutte le dottrine dei autori legali. Queste per el più le serve per intorbidar la materia, per stiracchiar la rason e per angustiar l'animo del giudice, el qual, non avendo più arbitrio de giudicar, el se liga e el se soggetta alle opinion dei dottori, che xe stadi omeni come lu, e che pol aver deciso cussì per qualche privata passion. Perdoni el giudice se troppo lungamente ho desertà dalla causa, credendo necessario giustificarme a fronte d'un avversario seguace del jus comun, e giustissima cossa credendo dar qualche risalto al nostro Veneto Foro, el qual xe respettà da tutto el resto del mondo, avendo avudo più volte la preferenza d'ogni altro foro d'Europa, per decider cause tra principi e tra sovrani.
Son qua, son alla causa e incontro de fronte la disputa dell'avversario. Sta bella disputa, fatta da mio compare Balanzoni con tutto el so comodo, senza scaldarse el sangue e senza sfadigar la memoria, la stimo infinitamente; ma, per dir la verità, quel che più stimo e considero in sta disputa, o sia allegazion dell'avversario, xe l'artificio col qual l'ha cercà de confonder la causa, de oscurar el ponto, acciò che no l'intenda né el giudice, né l'avvocato. Ma l'avvocato l'ha inteso, e el giudice l'intenderà. (il Dottore si va scuotendo)
Coss'è, compare? Menè la testa? M'impegno che in sta causa no ghe n'avè un fil de sutto. A mi. Coss'ela sta gran causa? Qual elo sto gran ponto de rason? Xelo un ponto novo? Un ponto che no sia mai stà deciso? El xe un ponto del qual a Venezia un prencipiante se vergogneria de parlarghene in Accademia. La senta e la me giudica su sta verità, dipendente da un'unica carta che el mio reverito sior Balanzoni non ha avudo coraggio de lezer, e che mi a so tempo ghe lezerò. El sior Anselmo Aretusi, padre del mio cliente, dies'anni l'è stà maridà senz'aver prole; el chiamava desgrazia quel che tanti e tanti chiamarave fortuna, e el desiderava dei fioli per aver dei travaggi. L'ha trovà un amigo che gh'aveva una desgrazia più grande della soa, perché el gh'aveva tre fie, che ghe dava da sospirar. El ghe n'ha domandà una per fia de anema, e lu ghe l'ha dada volentierissimo, e el ghe l'averave dae tutte tre, se l'avesse podesto. Anselmo tol in casa sta piccola bambina, dell'età de tre anni, el s'innamora in quei vezzi innocenti che xe propri de quell'età, e do anni dopo el se determina a farghe una donazion general de tutti i so beni. Ma la senta con che prudenza, con che cautela e con che preambolo salutar l'omo savio e prudente ha fatto sta donazion; e qua la me permetta che, prima de trattar el ponto, prima de considerar i obietti dell'avversario, ghe leza quella carta che xe la base fondamental della causa, quella donazion che ha omesso, forsi non sine quare, de lezer el mio avversario, e che la mia ingenuità xe in impegno de farghe prima de tutto considerar. Animo, sior lettor; chiaro, adasio e pulito: contratto de donazion a carte 4.
Lettore:  Addì 24 Novembre 1725, Rovigo. (legge caricato nel naso)
Alberto:  (Fa un atto d'ammirazione sentendolo difettoso) Bravo, sior sgnanfo, tirè de longo.
Lettore:  Considerando il nobile signor Anselmo Aretusi che in dieci anni di matrimonio non ha avuto figliuoli...
Alberto:  Considerando che in dieci anni di matrimonio non ha avuto figliuoli. Via mo, da bravo.
Lettore:  E temendo morire...
Alberto:  E temendo morire...
Lettore:  Senza sapere a chi lasciare le sue facoltà...
Alberto:  E temendo morire senza sapere a chi lasciare le sue facoltà. Anemo, compare sgnanfo.
Lettore:  Avendo preso per figlia d'anima...
Alberto:  Per figlia d'anima... La fia d'anema vol portar via l'eredità a quello che xe fio del corpo? Bella da galantomo. Avanti.
Lettore:  La signora...  (non sa rilevare la parola che segue)
Alberto:  Via, avanti.
Lettore:  La signora...
Alberto:  La signora... (lo carica) Tireu avanti, o lezio mi?
Lettore:  La signora... Rocaura Balanzoni.
Alberto:  Cossa diavolo diseu? O quei vostri occhiali fa scuro, o vu no savè lezer, compare. Lassè veder a mi. Compagneme coll'occhio, se digo ben. (prende esso i fogli) Avendo presa per figlia d'anima la signora Rosaura Balanzoni, a quella ha fatto e fa donazione di tutti i suoi beni, liberi presenti e futuri, mobili e stabili. Tegnì saldo, basta cussì. (rende i fogli al Lettore)
El donator porlo spiegar più chiaramente la so intenzion? Ghe rincresce non aver fioi, el dubita de morir senza eredi, per questo el dona i so beni alla fia d'anema; ma se el gh'aveva fioi, nol donava, ma se el gh'averà fioi, sarà revocada la donazion. Mo! nol l'ha revocada. Se nol l'ha revocada lu, l'ha revocada la lezze. Cossa dise la lezze? Che se el padre donando pregiudica alla ragion dei fioi, no tegna la donazion. Sta donazion pregiudichela alla rason del fio del donator? Una bagattella! la lo despoggia affatto de tutti i beni paterni. Mo! dise l'avvocato avversario, el gh'ha la dote materna, el gh'ha i fideicommessi ascendentali, el xe aliunde provvisto. Questi no xe beni paterni; questi nol li riconosce dal padre, ma dalla madre e dai antenati. I beni paterni xe i beni liberi, nei quali i fioli i gh'ha el gius della legittima, e el padre senza giusta causa no li pol eseredar. Ma come sto bon padre voleva eseredar un so fio, se el se rammaricava non avendo fioi e se el desiderava un erede? A fronte de una legge cussì chiara, cussì giusta, cussì onesta, cussì natural, no so cossa che se possa dir in contrario. Eppur xe stà dito. El dotto avvocato avversario ha dito. Ma cossa alo dito? Tutte cosse fora del ponto. El vede persa la nave, el se butta in mar, el se tacca ora a un albero, ora al timon, ma un per de onde lo rebalta, lo butta a fondi. Esaminemo brevemente i obietti e risolvemoli, no per la necessità della causa ma per el debito dell'avvocato. Prima de tutto el dise: la donazion se sostien, perché no la xe revocabile. Questo è l'istesso che dir: mi son qua, perché no son là. Ma perché songio qua? Perché non ela revocabile? Sentimo ste belle rason. Compatime, compare Balanzoni, ma sta volta l'amor del sangue v'ha fatto orbar. La xe vostra nezza, ve compatisso. El dise: quando el donator ha fatto sta donazion, giera dodes'anni ch'el giera maridà, fin allora no l'aveva abù fioi, onde el se podeva persuader de non averghene più. Vardè se questa xe una rason da dir a un giudice de sta sorte. Quanti anni gh'aveva la siora Ortensia Aretusi, quando Anselmo so mario ha fatto sta donazion? Vardè, sior lettor caro, a carte otto, tergo.
Lettore:  (Guarda a carte otto, e legge) Fede della morte della signora Ortensia Aretusi...
Alberto:  No, no, otto tergo.
Lettore:  Fede della morte...
Alberto:  Tergo, tergo.
Lettore:  (Lo guarda, e ride con modestia)
Alberto:  Ah! no savè cossa che vuol dir tergo? E sì a muso lo doveressi saver. Vardè da drio, alle carte otto. (Oh che bravo lettor!) (da sé)
Lettore:  Fede come nell'anno 1725...
Alberto:  Che xe l'anno della donazion.
Lettore:  La signora Ortensia, moglie del signor Anselmo Aretusi, aveva...
Alberto:  Aveva...
Lettore:  Anni...
Alberto:  Anni...
Lettore:  Trentadue...
Alberto:  Trentadue...
Lettore:  Ed era in quel tempo...
Alberto:  Basta cussì, che me fe vegnir mal. La gh'aveva 32 anni, e so mario desperava de aver più fioi? No l'aveva miga serrà bottega, per dir che no ghe giera più capital. Oh! che caro sior dottor Balanzoni! Sentì più bella: con sta fede, el padre della signora avversaria ha concesso so fia all'Aretusi, altrimenti nol ghe l'averave dada. Perché no s'alo fatto far una piezaria dalla siora Ortensia de far divorzio da so mario? Ma bisogna che sta piezaria o ella, o qualchedun altro, ghe l'abbia fatta, perché su sta fede l'ha collocà le altre do fie, a quelle el gh'ha dà tutto, e questa nol l'ha considerada per gnente. L'è morto senza gnente, e ella no la gh'ha gnente. Da sto fatto l'avversario desume una rason, che s'abbia da laudar la donazion, perché una povera putta no abbia da restar affatto despoggia. Xe ben che la sia vestida, ma se per vestirla ella s'ha da spoggiar un altro, più tosto che la resta nua, che la troverà qualchedun che la vestirà. La resta senza casa e senza alimenti? Mo no gh'ala el sior zio, che xe fradello del padre, e che xe obbligà in caso de bisogno a soccorrer i so nevodi? Dopo che l'avvocato avversario ha dito ste belle cosse, el s'ha impegnà de provarle tutte, perché i giurisconsulti della so sorte se vergogna parlar senza i testi alla man. Ma el s'ha ridotto a provarghene una sola, e saria stà meggio per lu che nol l'avesse provada, perché, la so prova, prova contra de lu medesimo. El dise: non osta l'obietto della sopravenienza dei fioi, perché questa opera quando la donazion xe fatta all'estraneo, no quando l'è fatta a qualch'altro fiol. La fia adottiva se paragona al fiol legittimo e natural, ergo la donazion no xe revocabile. Falso argomento, falsissima conseguenza. El fio adottivo se considera come legittimo e natural, quando manca el legittimo e natural. Co i xe in confronto, el fio per elezion cede al fio per natura, ma de più, se se trattasse de do fioi legittimi e naturali, e el padre avesse donà a uno per privar l'altro, no tegnirave la donazion. Più ancora, se el padre avesse donà a un unico fio legittimo e natural, e dopo ghe nascesse uno o più fioi, sarave revocada la donazion; donca molto più la va revocada nel caso nostro, nel qual se tratta de escluder un fio a fronte d'una straniera. Ecco i gran obietti, ecco le terribili prove. Tutte cosse che no val niente, cosse indegne della gravità del giudice che ne ascolta; e mi, che son l'infimo de tutti i avvocati, arrossisso squasi a parlarghene lungamente: che però vegno all'ultimo obietto, salvà per ultimo dall'avversario, perché credudo el più forte, ma che, in quanto a mi, lo metto a mazzo coi altri. El dise: fermeve, che se la donazion me scantina, come donazion, ve farò un barattin, e de donazion ve la farò deventar testamento. E qua el me fa la distinzion legal della donazion, inter vivos e causa mortis; e perché la donataria no podeva conseguir l'effetto della donazion, se non dopo la morte del donator, el dise: la xe una donazion causa mortis; la donazion causa mortis habet vim testamenti, onde non avendo fatto el donator altro testamento, questa se deve considerar per el so testamento. Fin adesso el mio riverito avversario; adesso mo a mi, e per vegnir alle curte, con un dilemma ve sbrigo. Voleu che la sia donazion, o voleu che el sia testamento? Se l'è donazion l'è invalida, se l'è testamento nol tien. Forti a sto argomento, dai filosofi chiamà cornuto, e vardevene ben, che el ve investe da tutte le bande. Se l'è donazion, l'è invalida, perché per la sopravenienza dei fioi se revoca la donazion. Se l'è testamento, nol tien, perché quel testamento che no considera i fioi, che li priva dell'eredità e della legittima, i xe testamenti ipso jure nulli; e i xe nulli per le nostre venete leggi, e i xe nulli per tutte le leggi del jus comun. Onde donazion invalida, testamento no tien, questa xe una tenacca, da dove no se se cava, senza perder el matador. Ma el matador l'avè perso, e mi la causa l'ho vadagnada, perché so con chi parlo; l'ho vadagnada, perché so de che parlo. Parlo con un giudice che intende e che sa; parlo d'una materia più chiara della luse del sol. Da un'unica carta dipende la disputa, la controversia, el giudizio. Sta carta xe invalida, la va taggiada, el giudice la taggierà: perché la donazion no sussiste, né come donazion, né come testamento; perché un fiol legittimo e natural non ha da esser privà dell'eredità paterna a fronte de una straniera; perché in sto caso, dove se tratta della verità e della giustizia, non ha d'aver logo la compassion; perché se l'avversaria resterà miserabile, sarà colpa del padre de natura, no del padre d'amor, dal qual senza debito e con danno del fiol che defendo, l'è stada mantenuda e custodida per tanti anni; e in ancuo,  quel che ha fatto Anselmo Aretusi per carità, lo pol far, e lo farà, l'avvocato Balanzoni per obbligo e per dover; e sarà effetto della giustizia taggiar la donazion, previa la revocazion della tal qual sentenza a legge avversaria, in tutto e per tutto a tenor della nostra domanda, compatindo l'insufficienza dell'avvocato che malamente ha parlà.




24 - Punto e virgola e due punti

PUNTO E VIRGOLA e DUE PUNTI

”…Vede, lei spesso usa il punto e virgola quando invece andrebbero usati i due punti. Secondo me, e non solo secondo me, il punto e virgola è una specie di piccolo regalo a chi legge. Un modo amichevole per dirgli “Guarda, non dovrei dirtelo, ma le due frasi complete che leggi prima e dopo di me in realtà sono in relazione. Non ti dico quale relazione ma se sei un lettore sei talmente intelligente che puoi arrivarci da solo”. Lei invece usa il punto e virgola anche per concetti che stanno in relazione di causa ed effetto…”                                                                              pag. 156

… Se io dico di una persona”E’ juventino. E’ una persona di cui non fidarsi” sto dando due informazioni separate, messe in relazione solo dal fatto che mi riferisco alla stessa persona. Se dico “E’ juventino; è una persona di cui non fidarsi” è chiaro che le due cose sono in relazione, ma non è chiaro in che relazione stiano – magari sto semplicemente elencando tutte le caratteristiche negative del tizio in questione; in ogni caso , faccio capire che secondo me essere juventini è deplorevole. Se io invece dico “E’ juventino: è una persona di cui non fidarsi” il mio giudizio è chiaro: quella persona è infida in quanto juventina, e stop”.                                             pag. 190


                                   M. Malvaldi, ARGENTO VIVO, Sellerio editore Palermo, Palermo, 2013

23 - LA PUNTEGGIATURA

LA PUNTEGGIATURA

I segni d'interpunzione si adoperano per indicare le varie pause del discorso e per renderlo più chiaro e colorito.
Essi sono: la virgola, il punto e virgola, i due punti, il punto (o "punto fermo"), il punto interrogativo, il punto esclamativo, i puntini sospensivi (o "punti sospensivi"), le virgolette, la lineetta, la parentesi, il tratto d'unione. 

La virgola (,) indica la pausa più breve fra due parole o fra due proposizioni. Allo scopo di evitare un suo uso troppo parsimonioso o eccessivamente abbondante, si tengano presenti alcune regole.
La virgola si adopera:
  • per separare un vocativo: ragazzi, siate buoni;
  • nelle enumerazioni, dinanzi a ogni termine che non sia unito agli altri con una congiunzione, oppure quando le congiunzioni sono ripetute a ogni termine : ad esempio, Il panorama era bello, suggestivo, nuovo; Ieri in piazza vidi te, tuo padre, tua madre e tuo fratello; e corre, e si precipita, e vola;
  • nelle apposizioni, negli incisi, nelle interiezioni: ad esempio, Roma, capitale d'Italia, è città antichissima; Il sole splende, nel vespero, con minor fiamma; Oh, potessi scrivere così bene!;
  • dopo alcuni avverbi, quando hanno valore di un'intera proposizione: Sì, ho una buona speranza; No, non posso venire; Bene, verrò presto a trovarti;
  • nelle proposizioni in cui non si ripeta il verbo già espresso in una frase precedente: le fortezze furono smantellate; le città, distrutte; le campagne, devastate;
  • davanti a sebbene, affinché, che consecutivo, se condizionale, ma, però, anzi e nelle proposizioni correlative: è bravo, ma poco socievole; gridò tanto, che perse la voce;
  • per dividere le proposizioni coordinate per asindeto: ad esempio, Venne, vide, vinse; Espose le sue idee, criticò i nostri progetti e se ne andò;
  • per distinguere le varie proposizioni che compongono il periodo: Ho visto, mentre partivo, che arrivava tuo padre, ma non gli ho detto nulla, perché avevo fretta.

La virgola si omette:
a)      quando sono usate le congiunzioni  e, o, ovvero, né, tranne quando si vogliono ottenere effetti speciali con più frequenti pause nel discorso: ad esempio Né il denaro né la promessa di una brillante carriera possono corrompermi. Qui a Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo al mondo, o a casa del diavolo, lo troverò (Manzoni);
b)      quando la proposizione subordinata svolge la funzione di soggetto o di complemento oggetto, salvo che sia invertito l'ordine naturale: ad esempio, Era chiaro che volevano il mio voto; Che volevano il mio voto, era chiaro. 

Il punto e virgola (;) indica una pausa più lunga della virgola e serve a separare due parti di uno stesso periodo o per segnare che tra due ordini di circostanze c'è una differenza o addirittura un'opposizione: ad esempio, Quando vidi che tutti mi fissavano, mi colse l'imbarazzo; tuttavia non mi persi di coraggio e risposi. 



I due punti (:) si adoperano:
a)      per introdurre una frase esplicativa: L'anima dell'astuto è come la serpe: liscia, lucente, lubrica e fredda (Tommaseo);
b) quando si riportano parole o discorsi altrui. In questo caso, i due punti sono seguiti da una lineetta o da virgolette e dall'iniziale maiuscola: ad esempio, Il sapiente Socrate ebbe a dire: "Questo solamente io so, di non saper nulla".
c) quando segue un elenco, una enumerazione: ad esempio, Le proposizioni subordinate possono essere di vario tipo: interrogative, oggettive, finali, ecc.

Il punto fermo (.) segna la pausa più lunga e si adopera alla fine di un periodo: E' mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle (Pirandello).
Il punto si pone anche al termine delle abbreviazioni (ecc., part., sm., avv.) o tra le lettere di una sigla (O.N.U., C.G.I.L.) e - in questo caso - l'ultimo punto non è seguito da lettera maiuscola. 

Il punto interrogativo (?) segna una frase interrogativa diretta. Se l'interrogazione è indiretta non si pone il punto interrogativo: ad esempio, Cosa dice?; Dimmi cosa dice; Dimmi: Cosa dice?. Il terzo esempio indica una interrogazione diretta, dipendente da un verbo asseverativo[1].
Se il punto interrogativo chiude un periodo, la parola seguente si scrive con la maiuscola; se invece si succedono più interrogazioni, dopo ogni punto interrogativo potrà seguire la lettera minuscola: ad esempio, Dove sei stato? Ti ho cercato tutto il giorno; Chi è stato? chi ha rotto il vetro?.
Il punto interrogativo si scrive dopo gli incisi racchiusi entro parentesi, mentre si omette talora dopo gli incisi racchiusi tra due virgole: ad esempio, Il capo non sapeva (e chi avrebbe dovuto dirglielo?) che alcuni avevano tradito; Un giorno, chi sa, potremo incontrarci ancora.
Il punto interrogativo si pone anche tra parentesi dopo una frase o una parola, specie di altro autore, per indicare ironia o incredulità: ad esempio, Il professor (?) Alessi sostiene il contrario. 

Il punto esclamativo (!) si pone alla fine di una frase per esprimere stupore, meraviglia, dolore ovvero uno stato d'animo eccitato: Com'era bello!; Chi l'avrebbe sperato!
Si pone anche nel mezzo della frase creando una pausa qualitativa: Quando ti vidi, ahime!, mi sentii mancare.
Il punto esclamativo si pone anche tra parentesi dopo una frase o una parola riferite da altro autore, quasi come lapidario commento: La nostra proposta fu giudicata "paradossale" (!). 

Il punto misto (!?), formato dal segno esclamativo e da quello interrogativo, esprime sorpresa, meraviglia, incredulità: ad esempio, Ha mentito. Possibile!? La parola seguente si scrive con la maiuscola. 

I puntini sospensivi (...) indicano una interruzione del discorso, una pausa eloquente, una reticenza: Cominciò: se io... ma non finì; Non vorrei che...; Se posso... Se non le dispiace... (Pirandello); A buon intenditor... 
I puntini di sospensione si usano: 
1) per preparare il lettore a una metafora ardita: ad esempio, Direi quasi che cantava... in punta di piedi;
2) per invitare il lettore a trarre le sue conclusioni al termine di un racconto o di un articolo;
3) all'inizio e alla fine di una citazione, al posto di quanto precede o di quanto segue: "...mi ritrovai per una selva oscura..."
4) alla fine di una serie per indicare che la serie stessa continua: Primo, secondo, terzo...
Dopo i puntini si usa la maiuscola solo se essi indicano la fine di un periodo. 

Le virgolette (<<...>> oppure "...") servono a racchiudere un discorso diretto, a mettere in rilievo una parola o un elemento della frase, oppure a introdurre una citazione: "In che posso ubbidirla?" disse don Rodrigo, piantandosi in piedi in mezzo alla sala (Manzoni). Considera che la parola "piano" può avere più significati. Cesare disse: "Il dado è tratto". 

La lineetta (-) sostituisce spesso le virgolette, specialmente nei dialoghi: Carlo disse: - Dove vai? - E Giorgio rispose: - Vado a trovare un amico. 

La parentesi tonda ( ) serve a racchiudere parole o proposizioni che non hanno una relazione necessaria con il resto del discorso. La parentesi è duplice: una di apertura e una di chiusura: ad esempio, Luigi (chi lo direbbe?) è stato promosso senza esame. 

Il trattino o tratto d'unione (-) serve a indicare al termine di una riga che la parola è spezzata e che continua nella riga seguente. Viene anche usato per congiungere i termini di parole composte: ad esempio l'accademia scientifico-letteraria, il confine italo-austriaco. 

L'asterisco (*) può servire come richiamo per le annotazioni a piè di pagina. Se l'asterisco viene ripetuto per tre volte, sostituisce un nome proprio di luogo o di persona che non si sa o che si vuole tacere : Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni (Manzoni). 

La parentesi quadra ([ ]) chiude parole estranee al testo, aggiunte per chiarimento : Quel grande [Petrarca] alla cui fama è angusto il mondo, per cui Laura ebbe in terra onor celesti (Alfieri). 


Oggi si tende a diradare i segni d'interpunzione e anche ad abolirli del tutto, talvolta per eccesso di raffinatezza, ma spesso per ignoranza. 
La punteggiatura (e ogni altro segno grafico di pausa) è comunque un elemento soggettivo, il cui uso dipende dall'intuizione, dalla carica emotiva, dalle predilezioni stilistiche dipendenti non solo dal mondo interiore dell'autore, ma anche dalle condizioni storiche del fatto espressivo. 






[1] Per asseverativo si intende un termine che serve a conferire forza ad un concetto, a dare maggiore incisività ad un significato. In grammatica, si suole specificare la funzione di alcune parti del discorso definendole "asseverative", cioè rafforzative di una affermazione: ad esempio "Hai lavorato? Eccome!"; in questo caso, la parola "Eccome" ha un valore asseverativo.

16 - IL TESTO PERSUASIVO

 IL TESTO PERSUASIVO

Per redigere un efficace elaborato probante, gli esperti si avvalgono principalmente di due metodi. Da una parte possono persuadere il lettore fornendo elementi argomentativi a suffragio della propria tesi, dall'altra possono ricorrere ad un tipo di scrittura più informale, tipica del linguaggio pubblicitario. Nel primo caso, il testo si articolerà in maniera classica: a fronte di un'introduzione in cui verrà esposto sommariamente il tema portante (il nucleo dell'elaborato, ovvero ciò che si vuole incentivare a fare), il corpo centrale consisterà di una serie di paragrafi in cui saranno esposte tutte le argomentazioni in grado di avvalorare la premessa dell'incipit. Infine, la conclusione rimarcherà la fondatezza della propria opinione, ponendo l'accento su tutte le "prove" fornite nel corpo centrale. Un testo persuasivo-informale, invece, recepirà elementi dinamici. Poiché questo elaborato non presenterà una struttura convenzionale, l'incipit potrà avvenire in medias res. Eliminato il preambolo introduttivo, il lettore si troverà proiettato immediatamente nel mezzo dell'esposizione dove confluiranno domande retoriche e periodi enfatici.
Stabilire l'obiettivo del proprio elaborato, sceglierne lo stile (argomentativo o informale) e modificare l'esposizione in base al destinatario sono dunque elementi essenziali per riuscire a redigere un testo persuasivo davvero efficace.
Durante l'elaborazione del testo, andranno forniti elementi probatori di natura certa. Questi potranno essere desunti dall'esperienza personale, da fatti realmente accaduti o da statistiche. L'esposizione dei fattori argomentativi dovrà avvenire con stile fluido e lineare, utile a rimarcare indirettamente la veridicità della propria tesi. Andranno invece evitate le forme verbali impersonali come "si dice" o "si reputa" ed i costrutti enigmatici, contraddittori e sillogistici. Questi elementi non soltanto non forniranno un plus valore al proprio elaborato, appesantendone l'esposizione e sviando l'attenzione dell'ascoltatore dal nucleo portante del tema (ciò che si intende fargli fare), ma potrebbero compromettere l'azione persuasiva del testo.
Infine, per sottolineare la fondatezza della propria tesi, nella conclusione potranno confluire alcune blande opposizioni che saranno prontamente contestate, così da risultare funzionali al testo. È bene quindi stilare una serie di comuni opinioni contrarie che potrebbero essere mosse al punto di vista che desideriamo difendere. Queste andranno trattare sbrigativamente e descritte con parole poco lusinghiere: l'interlocutore non dovrà infatti focalizzarsi sulle obiezioni, ma porre la propria attenzione su tutte le contro-prove che saremo in grado di fornire a sostegno della nostra tesi iniziale.


13 - IL TESTO REGOLATIVO

IL TESTO REGOLATIVO

Un testo regolativo è un testo che ha lo scopo di regolare il comportamento futuro proprio o altrui, dunque lo scopo di questo tipo di testo è:
fornire indicazioni
dare istruzioni
dare regole da seguire
I testi regolativi possono essere orali o scritti, alcuni esempi sono:
le istruzioni dei medicinali
le leggi
i manuali di istruzioni
le indicazioni per trovare la strada
le ricette di cucina
istruzioni per un esercizio in palestra


CARATTERISTICHE DEL TESTO REGOLATIVO

I due modi verbali spesso utilizzati in questo tipo di testo sono l’imperativo e il congiuntivo esortativo.
A volte i comandi/consigli sono espressi all’infinito (es. Procedere con prudenza!).
Un testo regolativo è efficace quando permette al proprio destinatario di comprendere con chiarezza ciò che gli viene richiesto.

Cosa fornisce?

Come si presenta?

Come è scritto?
⇒istruzioni
⇒informazioni
⇒regole
⇒breve
⇒schematico
⇒con elenchi puntati
⇒il testo è chiaro e preciso
⇒i verbi sono all’imperativo, al congiuntivo esortativo o all’infinito


Esempi:

istruzioni dei medicinali:
"prendete il farmaco a stomaco pieno; non superare le dosi indicate".

manuali di istruzioni:
"collegare il cavo all’apparecchio".

indicazioni stradali:
"prendi la prima strada a sinistra e poi gira a destra".

ricette di cucina:
"mescolate gli ingredienti e aggiungete un po’ di sale".

istruzioni per un esercizio in palestra:
"distesa sulla schiena, solleva il ginocchio destro e poi il sinistro".

leggi:
Art. 30 "È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli…"